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Turchia

Allarme Turchia

7 Giu 2006 - Alessandro Silj - Alessandro Silj

Del monito che il 16 maggio scorso la Commissione europea ha rivolto a Romania e Bulgaria, possono darsi, oltre a quella più ovvia, anche altre letture, più o meno sottintese, che aggiungono nuove valenze, senza contraddirla, a quella ufficiale. La prima è che l’Unione europea, non solo la Commissione, ma soprattutto i governi, abbia con ciò inteso rassicurare le opinioni pubbliche europee, oggi in maggioranza ostili a ulteriori allargamenti dell’Unione, o quanto meno rassicurarle che la vigilanza è severa e che non si faranno sconti a chicchessia.

La seconda è che si sia voluto dimostrare alla Turchia, che ritiene (giustamente) che nel negoziato per l’adesione l’Ue le stia imponendo condizioni più dure di quelle riservate a Romania e Bulgaria, che in realtà non c’è discriminazione. Una terza lettura vede nella presa di posizione della Ue nei confronti di quei due paesi un segnale indiretto ad Ankara: e questo segnale può significare, nell’interpretazione più benevola, che così come Bulgaria e Romania non possono dare per scontato che entreranno nel 2007, la Turchia deve mettere in conto che il negoziato potrebbe avere una durata ancora più lunga di quanto oggi previsto o sperato; e nell’interpretazione meno benevola, un messaggio teso a incoraggiare i dubbi di quanti, oggi ad Ankara, sospettano che il negoziato alla fin fine fallirà.

Dubbi crescenti
C’è da credere che, consciamente o inconsciamente, anche quest’ultimo intento abbia aleggiato nella formulazione del monito rivolto a Bulgaria e Romania. D’altra parte, alcuni recenti episodi verificatisi in Turchia, quali i processi a intellettuali accusati di offesa all’identità turca e alcuni errori di Erdoğan (si sarebbe tentati di chiamarli gaffe, ma in realtà vanno ritenuti il frutto delle difficoltà obiettive nelle quali è costretto a muoversi il primo ministro turco), destano preoccupazione. Mi riferisco, tra l’altro, alla decisione di candidare alla carica di Governatore della Banca centrale una persona che il Presidente della Repubblica non poteva gradire, all’insistenza con cui il primo ministro ripropone periodicamente la questione del velo, alla proposta poi rientrata di criminalizzare l’adulterio, alla sua decisione di non intervenire ai funerali del giudice del Consiglio di Stato assassinato da un estremista nazionalista.

Queste e altre mosse politiche lo hanno messo sulla difensiva. E se è vero che i processi di cui sopra non sono stati una scelta del governo che, semmai, si è dichiarato contrario, ma sono stati provocati da una agguerrita schiera di avvocati nazionalisti, nondimeno essi hanno rafforzato le riserve di quanti, in Turchia e in Europa, si oppongono all’ingresso della Turchia nella Ue.

Un risveglio della questione curda, e il deterioramento del rapporto di Erdoğan con i militari, hanno ulteriormente indebolito il governo. Corrono voci, senza alcun dubbio istigate ad arte dai nazionalisti, tuttavia emblematiche del clima politico che in questi giorni regna nel Paese, che danno per possibile un nuovo pronunciamento dei militari. Perché mai altrimenti il presidente del Parlamento recentemente ha ritenuto di dovere dichiarare che “non è vero che un colpo di stato è alle porte”?

Il ruolo dell’esercito
In passato, il ruolo di “salvatori della patria” dei militari ha fortemente condizionato la vita politica turca – questa volta un loro intervento verrebbe presentato, si dice, come una risposta agli attentati e alle altre violenze verificatisi negli ultimi due mesi. Se ciò per malaugurata ipotesi dovesse avvenire, l’intellighenzia laica e liberale, in passato sempre critica del ruolo dei militari (tanto che molti dei suoi esponenti hanno pagato con il carcere la loro opposizione), ma che si è rassegnata a denti stretti a vedere il Paese governato da un governo islamico, questa volta potrebbe defilarsi e scegliere il silenzio.

E intanto gli ultimi sondaggi indicano che il sostegno dell’opinione pubblica alla politica europea di Erdoğan va diminuendo e aumentano coloro che si esprimono contro l’ingresso nella Ue. Né aiutano le notizie provenienti dall’Europa, dove in molti paesi l’opposizione popolare a un tale ingresso va crescendo.

Un ritorno dei nazionalisti al governo segnerebbe la fine dell’avventura europea, non solo, ma sarebbe foriero di una crisi grave che andrebbe ben oltre la questione europea, con conseguenze difficilmente prevedibili ma comunque molto pericolose, anche per gli equilibri della regione. Sebbene siano ancora in molti in Turchia a ritenere poco probabile una caduta di Erdoğan, il quale potrebbe decidere, per uscire dall’impasse, di indire elezioni anticipate, al momento tale eventualità non può venire esclusa.

La ragione politica ci obbliga a un cauto ottimismo, ma non possiamo nasconderci che, sia pure in assenza di un colpo di mano dei militari o di una vittoria dei nazionalisti, quanto sta avvenendo in questi giorni su entrambe le sponde potrebbe preludere a un drastico ridimensionamento del rapporto della Turchia con l’Europa.