Multilateralismo made in Usa: il “concerto delle democrazie”
L’opzione unilaterale che l’amministrazione Bush privilegiò all’indomani dell’11 settembre 2001 è uscita seriamente screditata dalle vicende politiche e militari cui ha dato seguito in questi anni e pare destinata a essere declassata con l’uscita di scena dell’attuale inquilino della Casa Bianca il prossimo novembre.
Contemporaneamente al declino dell’unilateralismo, si è registrato nel dibattito americano un rinnovato interesse per il destino delle istituzioni internazionali. Esso ha visto la partecipazione attiva non solo dei democratici, ma anche di importanti intellettuali conservatori, come il noto politologo Francis Fukuyama che ha affrontato questa problematica in uno dei suoi ultimi libri. È in questo contesto che uno schieramento trasversale di pundits ed intellettuali ha avanzato l’idea di un “concerto delle democrazie” con il fine dichiarato di rilanciare il multilateralismo, ma adattandolo al contempo alle esigenze del mutato contesto internazionale del nuovo millennio. La proposta ha immediatamente suscitato reazioni nel mondo politico. Il senatore John McCain, in corsa per le primarie nelle file del Partito Repubblicano, ha incluso questa visione nella sua piattaforma elettorale sotto il nome altisonante di una “League of Democracies“.
Nessun candidato democratico ha per il momento seguito un simile corso, ma tra i promotori di questa iniziativa figurano intellettuali di chiaro orientamento liberal, come il teorico delle relazioni internazionali di Princeton, G. John Ikenberry, e il consigliere di Barack Obama per la politica estera, Ivo Daalder.
Multilateralismo sì, ma fuori dall’Onu
Per meglio comprendere il risvolto politico di questa proposta è necessario chiarirne l’ispirazione, il contenuto, e la matrice. In termini semplici, la preoccupazione sembra quella di rimediare alla seria crisi di immagine e influenza che gli Stati Uniti hanno sofferto dal 2001 ad oggi, recuperando il sostegno degli alleati, ma dissociando il multilateralismo dall’Onu e, più in generale, dalla concezione per la quale la legittimità internazionale sia da individuarsi, così come è stato finora almeno, nel carattere universalistico delle istituzioni preposte al mantenimento della sicurezza e della pace mondiale.
Il contenuto di questa proposta, nelle sue diverse formulazioni (la più dettagliata è contenuta in questo Rapporto finale), è quella di istituire con trattato formale o semplice accordo tra Governi, una nuova istituzione internazionale aperta esclusivamente alle “democrazie” e operante come una sorta di “direttorio” di un nuovo ordine mondiale. Quest’ultimo non si reggerebbe più sul carattere inclusivo delle sue istituzioni universalistiche, ma sulla validità ritenuta universale del principio democratico. Eccetto alcuni casi, l’idea non è quella di rimpiazzare le Nazioni Unite e smantellare il sistema che ruota attorno ad esse, ma comunque di accostare loro una nuova e superiore fonte di legittimità internazionale che abbia sulle prime un effetto di “catalizzatore”.
Il compattamento del fronte dei paesi democratici, si sostiene, imprimerebbe infatti una decisiva accelerazione al processo di riforma dell’Onu, da troppo tempo in stallo, e offrirebbe nel frattempo un’alternativa al Consiglio di Sicurezza come forum dove discutere le grandi questioni di politica internazionale.
Il “concerto” delle democrazie sortirebbe dunque un duplice effetto: da un lato, favorirebbe il coordinamento tra i paesi democratici; dall’altro, costringerebbe le altre potenze ad adottare i principi di politica internazionale così come intesi nel “mondo democratico” e intraprendere esse stesse una transizione verso la democrazia, pena rimanere esclusi dal nuovo e ambito “club” delle democrazie.
Un punto di incontro
L’idea di un “concerto delle democrazie” ha una chiara matrice statunitense. Pressoché tutte le proposte più recenti sono state avanzate da intellettuali o leader politici americani e rare sono state le dichiarazioni a riguardo da parte dei maggiori leader europei. Più precisamente, questa proposta sembra coniugare tre sentimenti molto diffusi nel mondo politico statunitense: la crescente sfiducia, se non aperto disprezzo, per le Nazioni Unite che trova origine in ambienti conservatori ma che ha contagiato ora anche importanti segmenti del partito democratico; la convinzione che tra le priorità della politica internazionale degli Stati Uniti vi sia non solo la difesa della democrazia dove già esiste, ma anche la diffusione in altre aree del mondo, fino a ipotizzare che il principio democratico diventi nel tempo la fonte unica di legittimità internazionale, nonché la base di un nuovo ordine mondiale; la preoccupazione che il rilancio del multilateralismo non finisca per minare, e anzi favorisca, la conservazione della leadership degli Stati Uniti tra i propri alleati così come il primato della superpotenza Usa a livello mondiale.
Questo spiega perché l’idea di un “concerto delle democrazie” ha per il momento raccolto adepti in particolare tra coloro che, nel fronte dei conservatori, sono disposti a porre un freno alle “tentazioni unilateraliste” degli ultimi anni, ma che continuano a vedere le Nazioni Unite come una “trappola”, come il neoconservatore Robert Kagan ad esempio, e tra quei democratici che sono pronti a far proprio l’obiettivo della promozione attiva della democrazia, ma solo se parte di una strategia concertata con gli alleati e improntata all’uso della diplomazia piuttosto che a quello della forza.
Multilateralismo e leadership Usa
Quanto alla preservazione del primato, l’istituzione di un “concerto delle democrazie” parrebbe sortire il duplice effetto di dividere il fronte degli avversari degli Stati Uniti o presunti tali, e al contempo ricompattare la schiera degli alleati dietro una più chiara e forte leadership americana. Tra gli effetti probabili di questa proposta, se attuata, vi sarebbe non solo un declassamento di fatto del Consiglio di Sicurezza e dunque dei paesi che all’interno di esso hanno sovente difeso una posizione autonoma da quella degli Stati Uniti, come Cina e Russia, ma anche la possibile cooptazione di paesi democratici che sono o potrebbero diventare rivali dell’America, come Brasile e India.
Sul fronte delle alleanze, il concerto delle democrazie rimetterebbe tutti i paesi europei a fianco degli Usa, ma potrebbe comportare un indebolimento complessivo dell’influenza europea sulla politica statunitense. Allo stato attuale del processo di integrazione, l’Europa sarebbe infatti inclusa nella nuova organizzazione non come soggetto unitario, cioè come Unione Europea, quanto come singoli Stati. A meno di non istituire una qualche forma di coordinamento, gli Stati europei potrebbero poco singolarmente nei confronti del colosso statunitense, che finirebbe per occupare la posizione di “primus inter pares” all’interno del “concerto”.
L’inclusione nella nuova organizzazione di democrazie che non appartengono all’area tradizionale dell’Occidente, inoltre, renderebbe la relazione transatlantica meno esclusiva e consentirebbe agli Usa di cercare di volta in volta intese con gli alleati meglio disposti verso le proprie politiche senza per questo vedere necessariamente minata la legittimità della propria azione internazionale.
Se inteso come uno strumento di ordine mondiale, il rischio più serio potrebbe derivare dalla separazione tra sedi di potere e di legittimità a livello internazionale: il “concerto” si ergerebbe a fonte ultima e suprema di legittimità internazionale ed esautorerebbe di fatto il Consiglio di Sicurezza di alcune delle sue prerogative; al contempo, tuttavia, il potere internazionale rimarrebbe significativamente diviso tra paesi democratici e non. Tra questi ultimi figurano alcuni dei soggetti economici e politici emergenti, la Cina in particolare, nonché importanti potenze regionali, come Russia e Iran. Esclusa l’ipotesi di una repentina transizione di queste società alla democrazia, l’alternativa per questi paesi sarebbe l’isolamento o la prospettiva più complessa, ma certo più appetibile, di una coalizione comune contro il nuovo “blocco” democratico. Questo ordine mondiale diviso potrebbe dunque verosimilmente generare più tensione che stabilità e resta da vedere in che misura si dimostrerebbe compatibile con l’obiettivo stesso che pare ispirarlo, vale a dire la conservazione della leadership internazionale degli Usa nello specifico, e la difesa della democrazia in generale.