IAI
Intervista a Fouad Ajami

L’America che in Iraq non vuole perdere

29 Apr 2008 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

“Il pubblico americano può mal sopportare il protrarsi della guerra in Iraq. Ma sia chiaro: ciò che realmente detesta è la prospettiva di una sconfitta militare”. Uno dei più noti e controversi interpreti della storia recente del Medio Oriente, e tra gli intellettuali americani che hanno maggiormente influenzato la politica estera dell’amministrazione Bush dal 2001 ad oggi, Fouad Ajami fa un primo bilancio della situazione mediorientale odierna, a cominciare dall’Iraq. Del resto, il Medio Oriente resterà in cima alle priorità del governo americano, chiunque sia a varcare la soglia della Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali del prossimo novembre.

Prof. Ajami, per quanto la guerra in Iraq impegni l’America da 5 anni e il suo esito sia ancora molto incerto, la campagna presidenziale si è per ora concentrata su temi considerati ancora più urgenti, come l’economia. Si prepara il terreno per il ritiro?
È innegabile che da qualche tempo l’economia ha rimpiazzato l’Iraq come principale fonte di preoccupazione pubblica negli Stati Uniti. Questo era, del resto, nella natura delle cose. Quando la gente fatica a conservare il proprio benessere materiale, ogni impegno preso oltre confine, ogni spedizione militare, sembrano improvvisamente dei beni di lusso superflui. Detto questo, io ribadisco che la guerra in Iraq è perfettamente sostenibile finanziariamente anche in queste condizioni. Stiamo spendendo il 4,5 % del nostro prodotto interno lordo per la difesa. Questo è molto meno di quanto spendemmo durante la guerra di Corea e durante la guerra del Vietnam.

Il candidato Repubblicano John McCain ha continuato a tessere le lodi della guerra al terrorismo anche ora che si parla di recessione; sarà penalizzato per questo?
I Democratici combatterono per il controllo del Congresso nel 2006, e vinsero, sulla questione dell’Iraq. Il 2008 è un’altra cosa. Come ho scritto di recente sul “Wall Street Journal”, sia i sostenitori che gli oppositori della guerra sono svenati dalla dura contrapposizione di questi anni. Ma sia chiaro: il pubblico americano può mal sopportare il protrarsi della guerra in Iraq, ma aborrisce la prospettiva di una sconfitta militare. Il Senatore McCain, un sostenitore della prima ora del “surge” del Generale Petraeus, ha buone chance di essere eletto presidente.

L’era Bush giunge al termine ed è tempo di bilanci. Lei è stato tra i più stretti consiglieri dell’amministrazione proprio nei mesi cruciali della decisione della guerra. Più in generale, è stato presentato come uno dei massimi esponenti del pensiero neoconservatore. Qual’è il suo giudizio su questa presidenza che sta per chiudersi?
Mi sono riconosciuto in questi anni nella diplomazia e nell’immagine che l’amministrazione Bush ha inteso dare di sé. Ho pensieri gentili per il presidente Bush, per il suo vice Cheney, e per il Segretario alla Difesa Donald Rumsefeld. Ho avuto accesso regolare a queste persone e più in generale alla Casa Bianca, e non mi sentirei di disconoscere quanto hanno fatto, né tanto meno di minimizzare ora l’enorme fardello che si sono trovati sulle spalle all’indomani dell’11 settembre. La loro è stata una sfida di entità colossale: difendere la posizione degli Stati Uniti nel mondo combattendo contro i nemici che hanno portato morte e rovina nelle strade dell’America. Se si prende questa prova di leadership e la si contrasta con quella di Bill Clinton e la sua fede “solare” ma vuota nella “globalizzazione” e in un mondo senza confini, non posso che essere orgoglioso di essere associato al presidente Bush e ai suoi luogotenenti.

Quali sono, secondo lei, i principali successi di Bush? Quali gli errori?
Non sempre vi sono state la consapevolezza e sensibilità culturale necessarie per capire i popoli musulmani. Come uomo di origine araba, sono tuttavia riconoscente al presidente Bush per aver coraggiosamente sfidato l’idea che gli arabi sono destinati al dispotismo. La sua fede nella libertà ha rotto con il senso comune che gli arabi non hanno semplicemente la libertà nel loro Dna. Tra i successi, metterei prima di tutto la distruzione del regime dei Talebani. Poi la rimozione di Saddam Hussein e la fine della sua dittatura. Il ruolo che la diplomazia americana ha giocato nel Libano è un altro punto cruciale: il timore di Bush è stato il fattore centrale che ha portato la Siria a lasciare il Libano nell’aprile 2005, dopo un dominio che si era protratto per quasi trenta anni.

Nessun errore, allora? O rimpianto?
Non si può certo essere orgogliosi dell’appoggio che gli Stati Uniti hanno dato al regime di Mubarak al Cairo. Quell’uomo ha ottenuto ancora il gettone dell’America anche se mantiene in piedi un regime autoritario terribile. È impossibile fare quadrato con la sincera fede nella libertà di Bush e l’indulgenza concessa a Mubarak. L’appoggio che gli Stati Uniti danno a quel leader non era necessario. In Egitto si doveva fare meglio. Questa è una macchia nella nostra diplomazia della libertà.

Il Medio Oriente rimarrà una priorità strategica degli Usa chiunque diventi il prossimo presidente. Come si sono mossi finora i candidati su questo punto?
Ci sarebbe sicuramente una certa continuità tra Bush e McCain se quest’ultimo fosse eletto presidente. McCain, tuttavia, è un nazionalista americano. Non credo che condividerebbe appieno quella speranza per la libertà degli arabi e degli islamici che è stata così cara all’attuale presidente. Come Bush, McCain difenderebbe gli interessi degli Stati Uniti nella regione, proseguirebbe la guerra al terrore, e rimarrebbe in Iraq. Ma la fede quasi religiosa nella libertà che ha animato la diplomazia di Bush non sopravviverà alla sua presidenza.

Come vede invece il favorito dei Democratici, Barack Obama?
Obama è un’entità sconosciuta. Alcune delle persone che lo circondano, tuttavia, come Antony Lake che servì come Consigliere per la sicurezza nazionale di Clinton e Brzezinski degli anni di Carter, non ispirano molta fiducia. Il mondo al di là delle coste dell’America sarà un test cruciale per Obama, che lo voglia o meno. Ma il giovane senatore è sveglio e abile. I suoi istinti potrebbero suggerirgli giusto.

E Hillary Clinton?
È proprio difficile indovinare cosa pensi e dove si collochi la senatrice Clinton. Presumibilmente, riuscirebbe a schivare il fuoco dei cecchini anche durante la prossima visita in Bosnia … In ogni caso, chiunque sia il prossimo Presidente, il nuovo inquilino della Casa Bianca troverà una buona eredità: il mondo ha bisogno dell’America e della sua leadership, anche se lo nega.

Come commenta l’idea di Obama di parlare con i nemici dell’America, a cominciare dall’Iran?
Ho detto appunto che il mondo sarà un test per Obama. E l’Iran lo deluderà. Quel regime è radicale e non ha alcun interesse in un dialogo con gli Stati Uniti. Nel 1989, Bush padre cercò un dialogo ma invano. Madeleine Albright si scusò per l’operazione Ajax che ribaltò il regime di Mohamed Mussadegh e gli iraniani non apprezzarono la sua diplomazia. Obama non riuscirà a fare meglio. C’e’ una certa stabilità in questa assenza di dialogo tra Iran e Stati Uniti. Non vi sarà guerra e non vi sarà accordo. Vi sarà invece il protrarsi di questo stagnante status quo. Questo però è l’esito che gli attuali governanti dell’Iran preferiscono.

Cosa pensa del regime delle sanzioni? Dovrebbe l’Europa procedere anche unilateralmente?
Le sanzioni contro l’Iran non hanno funzionato. Il mercato del petrolio odierno dà all’Iran ampi margini di manovra. L’Europa non accetterà mai delle sanzioni di tipo diverso, ancora più dure. Le sanzioni attuali sono viste come un sostituto di un confronto militare con l’Iran. Gli iraniani bluffano. Se gli Stati Uniti chiedessero di buttare giù le carte e optassero per una seria campagna militare, sarebbe un colpo devastante per loro.

L’Italia è da tempo impegnata in Libano, una terra a lei molto cara. Come vede la situazione li?
Amo il Libano. È dove sono nato. Ma è un paese suicida. Un diplomatico francese che conosceva il paese molto bene, disse, nei primi anni del ‘900, che i libanesi avrebbero dato fuoco alle loro case pur di accendersi una sigaretta. La Rivoluzione dei Cedri è stata nobile, ma doveva portare gli sciiti dentro il circolo delle persone rispettabili e non è successo. Una scelta importante attende gli sciiti: votarsi sinceramente al futuro del Libano, o continuare ad aggrapparsi al legame usurato e deleterio siriano-iraniano. L’Unione Europea può giocare un ruolo molto importante, data la prossimità della Francia e dell’Italia al territorio libanese. La campagna per un Libano libero dall’egemonia siriana è appena cominciata. E richiederà tanta fatica.

Lei è un uomo di origine araba che vive e lavora da tanto in America. Due mondi che sembrano far fatica a comunicarsi ma che sembrano ineluttabilmente legati. Come li descriverebbe?
È vero. Sono un uomo del mondo arabo e ora anche, e profondamente, un americano. Vivo letteralmente sulla faglia, e provo a spiegare l’America agli arabi e gli arabi all’America. Per gli americani il mio messaggio è stato che le terre del mondo arabo-musulmano non sono il Kansas o il Minnesota. La vita è dura in quelle terre difficili. Nel deserto devi sapere distinguere tra il miraggio e la realtà se vuoi sopravvivere. Prova a spiegare la differenza tra l’Islam sunnita e quello sciita a un valido e onesto soldato del Missouri. Sulle coste dell’America la destinazione è il futuro, nelle terre arabe il passato ha un potere tremendo, spesso letale. Dalla spedizione americana in Libano nel 1982-83 fino all’attuale Guerra in Iraq ho cercato di ricordare agli americani di non dare sempre retta a coloro che reclamano l’appoggio e la difesa dell’America. L’America si trova su una terra innocente. Ma quei 19 giovani arabi che la mattina crudele dell’11 settembre si sono trovati sul suo cammino, hanno offerto agli Stati Uniti una lezione terribile. La realtà ha più facce nelle terre arabe: serve pazienza e accortezza per capire che i giovani egiziani che professano il loro odio per l’America al mattino, sono gli stessi che al pomeriggio fanno la fila davanti all’Ambasciata americana per ottenere il visto.