Cosa può fare l’Occidente
Non è poco quel che la Russia ha fin qui ottenuto con l’intervento militare in Georgia. Ha dimostrato di essere pronta a usare la forza per salvaguardare quelli che considera i suoi interessi vitali. Ha dato una prova inequivocabile del suo potere politico e militare nel “vicino estero”. Ha messo a nudo la scarsa capacità di reazione dei paesi occidentali alle crisi che investono l’area. Ha non solo ricacciato indietro in poche ore le truppe georgiane in Ossezia del sud, ma, penetrando in profondità nel territorio della Georgia, ha dimostrato di poter facilmente tagliare in due il paese, interrompendo collegamenti vitali per la sua economia.
Ha così inferto anche un colpo formidabile al progetto occidentale di costruire una rete di gasdotti e oleodotti che colleghino l’Azerbajian e l’Asia centrale all’Europa, attraverso la Georgia,scavalcando la Russia. Infine, riconoscendo l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del sud ha, fra l’altro, messo una pietra tombale sull’ipotesi, a lungo caldeggiata dagli occidentali, di sostituire le truppe russe nelle repubbliche secessioniste con una vera missione internazionale di peacekeeping.
Il rovescio della medaglia
Ma c’è il rovescio della medaglia che sarebbe parimenti sbagliato sottovalutare: i costi politici ed economici che la Russia sta pagando o potrebbe pagare in futuro. Spaventando i vicini, Mosca ha rafforzato in alcuni di essi la determinazione a integrarsi nelle strutture euro-atlantiche (non è il caso solo della leadership georgiana, ma anche di quella ucraina). E dopo l’intervento russo le resistenze polacche all’installazione del temuto sistema antimissilistico americano si sono sciolte come neve al sole (l’Ucraina, dal canto suo, si è affrettata ad offrire agli occidentali l’accesso ai suoi radar per la difesa aerea). Anche il desiderio di alcune repubbliche centroasiatiche di acquisire una maggiore autonomia da Mosca potrebbe alla fine emergere rafforzato da questa crisi.
Non solo: il riconoscimento dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del sud potrebbe incoraggiare, nel più lungo termine, i movimenti indipendentisti non soltanto ai confini della Russia, ma anche al suo interno, nelle regioni caucasiche di confine, creando quell’effetto domino che è stato l’incubo di Mosca sin dai tempi di Eltsin. C’è poi quello che la Russia sperava di ottenere e non ha – almeno finora – ottenuto. Mikhail Saakashvili, l’odiato presidente georgiano, di cui i dirigenti russi hanno immediatamente chiesto la testa, rimane in sella, anche se il suo futuro politico appare precario. E il goffo tentativo del presidente russo Dmitry Medvedev di ricevere dalla Shangai Cooperation Organization (Sco) – l’organizzazione cui partecipano anche la Cina e quattro repubbliche centroasiatiche – un sostegno al riconoscimento di Abkhazia e Ossetia del sud, è stato un clamoroso fallimento. Né poteva essere diversamente: tutti gli altri membri della Sco, a cominciare dalla Cina, vedono come fumo negli occhi ogni mossa che possa avvalorare aspirazioni indipendentiste, avendo a che fare, chi più chi meno, con turbolente minoranze interne. Ed è facile prevedere che, a differenza di quanto accaduto per il Kosovo, solo pochissimi Stati – seppure ce ne sarà qualcuno – si uniranno alla Russia nel riconoscimento delle due repubbliche caucasiche.
Anche i danni economici subiti dalla Russia non sono irrilevanti. Il rublo ha perso quota, più del 4% nei confronti del dollaro. Il mercato azionario ha avuto una brusca caduta (perdendo, fra l’altro, più del 6% immediatamente dopo l’annuncio che la Russia avrebbe riconosciuto le due repubbliche secessioniste). La fuga di capitali è stata ingente: solo nella prima settimana del conflitto, secondo dati della banca centrale russa, le riserve in valuta straniera si sono ridotte di oltre 16,4 miliardi di dollari, il calo maggiore dalla crisi del 1998. In generale i mercati russi sembrano aver reagito con notevole preoccupazione al conflitto con la Georgia, il che dovrebbe preoccupare il Cremlino.
Ma è probabile che i dirigenti russi abbiano messo in conto gran parte di questi costi e li abbiano considerati non solo accettabili, ma anche contenibili. Per limitarci solo a quelli economici, non è escluso che lo choc provocato dalla crisi si riassorba in poco tempo. D’altra parte, le industrie energetiche nazionali, nei cui consigli d’amministrazione siedono molti dirigenti politici russi, hanno continuato a fare affari d’oro e non è detto che, per le ragioni summenzionate, alla fine non si avvantaggino della crisi. Più in generale, è chiaro che il presidente del Consiglio russo, Vladimir Putin, che, tutto indica, continua a tenere saldamente nelle sue mani le redini della politica estera del paese, sembra dare priorità agli obiettivi geopolitici rispetto a quelli economici. O perlomeno non è affatto disposto a sacrificare i primi ai secondi. D’altra parte egli sembra convinto che il recupero di potere e influenza sul “vicino estero” sia una delle condizioni fondamentali per il rafforzamento economico della Russia. Che cioè una maggiore influenza politica in quell’area dia alla fine anche dei ritorni economici.
Lo spazio di manovra dell’Occidente
Ma quale strategia politica dovrebbero seguire i paesi occidentali in questa situazione? Per rispondere a questa domanda, bisogna chiedersi innanzitutto che cosa realisticamente possono fare, qual è, in concreto, il loro spazio di manovra. E la risposta, piaccia o meno, è che esso è molto limitato. Mosca ha vinto militarmente e nessuno vuole o è in grado di costringerla con la forza a fare marcia indietro. Almeno da questo punto di vista, è indiscutibilmente in una posizione di grande vantaggio. Ciò significa che è irrealistico chiedere che conceda ora quel che aveva costantemente e ostinatamente rifiutato prima del conflitto, come, per esempio, la sostituzione della sua missione di peacekeeping in Abkhazia con una di carattere realmente internazionale. Né si può sperare di ristabilire lo status quo ante, anche se è questo quel che hanno subito chiesto i paesi occidentali. Per la semplice ragione che nessun leader occidentale è pronto a contemplare l’uso della forza per – tanto per fare un esempio – restituire alla Georgia quel poco di territorio che controllava in Abkhazia prima della crisi. Né tanto meno per ripristinare la completa integrità territoriale della Georgia, di cui peraltro non fa esplicita menzione neppure l’accordo per il cessate il fuoco messo a punto dal presidente francese Nicolas Sarkozy e firmato dalle due parti.
Facendo leva sull’accordo, gli occidentali devono invece puntare a ottenere il ritiro, nel più breve tempo possibile, delle truppe russe che stazionano nel territorio georgiano al di fuori delle repubbliche secessioniste. Con ogni probabilità Mosca progetta di lasciare una presenza militare almeno nella “zona di sicurezza” – una fascia di territorio di una dozzina di chilometri a cavallo del confine tra Georgia e Ossezia del sud – ma è essenziale che i paesi occidentali insistano che il controllo di questa fascia di territorio ed eventualmente di quella al confine tra Georgia e Abkhazia siano invece affidate a una forza neutrale di interposizione, il che ridurrebbe, fra l’altro, il rischio di un riaccendersi degli scontri tra forze russe e georgiane.
Nel frattempo, anche in vista dell’accordo sulla creazione di questa forza di peacekeeping, è fondamentale che cominci ad operare nell’area la prevista missione di osservatori dell’Osce, a cui anche i russi hanno dato il loro consenso (alla sua realizzazione sta lavorando in particolare l’Unione europea). Rimane il fatto che al momento truppe di Mosca continuano a stazionare in altre zone strategicamente anche più importanti della Georgia, come il porto di Poti. Il ritiro di queste forze russe deve rimanere per gli occidentali una condizione non negoziabile.
Altro obiettivo irrinunciabile e strettamente connesso al precedente è impedire il collasso dello Stato georgiano. Fra tutti i paralleli esagerati e fantasiosi con episodi della Guerra Fredda che si sono sentiti in questi giorni, quello con il ponte aereo che gli alleati attuarono nel 1948-1949 per sventare il tentativo di Stalin di strangolare Berlino è forse l’unico che ha un fondo di verità. Non c’è dubbio infatti che una parte almeno della leadership russa punta a provocare, attraverso la pressione politica e militare, una crisi verticale delle istituzioni georgiane che possa aprire la strada a un cambiamento di regime. È imperativo per gli occidentali sventare questo disegno, mobilitando le risorse e capacità necessarie per aiutare la Georgia a ricostruire le infrastrutture, tornare a far funzionare a pieno regime l’amministrazione e ricostituire le forze armate.
Questo sostegno non può però tradursi in una cambiale in bianco all’attuale leadership georgiana. Saakashvili vorrebbe una solidarietà incondizionata, ma non è nelle condizioni di pretenderla. Ed è essenziale, anche in vista di una soluzione pacifica e duratura della crisi, rifiutargliela. Il presidente georgiano porta infatti una grave responsabilità per lo scoppio del conflitto. E non solo per il disastroso errore di calcolo che lo ha portato a lanciare l’offensiva militare contro l’Ossezia del sud, ma anche per il modo avventuristico con cui ha gestito in questi anni i rapporti con le repubbliche secessioniste e con la Russia.
Ed è probabile che qualcuno prima o poi gli presenterà il conto, anche se il clima nazionalistico che inevitabilmente prevale nel paese tende oggi a favorirlo. Il punto è che, dati i precedenti, non ci si può più fidare di Saakashvili e del suo entourage. Che peraltro, anche dopo la pesante sconfitta militare, non danno segni di voler rinunciare alla loro retorica bellicosa. Il presidente georgiano non ha inoltre esitato in passato a usare la carta del nazionalismo antirusso per cercare di tacitare il dissenso interno, verso il quale ha sempre mostrato grande insofferenza. Per tutto ciò è essenziale che i paesi occidentali, facendo leva anche sugli aiuti, esercitino il massimo della pressione per indurre la leadership georgiana alla moderazione. Non è facile nell’immediato, essendo adesso la priorità rimettere in piedi la Georgia, ma è essenziale che non si lasci credere a Saakashvili che può contare sul sostegno occidentale a prescindere da ciò che dice e fa.
Punire la Russia?
Si discute anche di eventuali misure punitive da adottare contro la Russia. Ma anche qui le cose sono tutt’altro che semplici. La minaccia di bloccare l’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) sarebbe un’arma spuntata. E non tanto e non solo perché Putin ha dichiarato più volte che la Russia può fare tranquillamente a meno dell’Omc. Ma anche perché Mosca sa che in ogni caso la Georgia continuerà a porre il veto alla sua entrata nell’organizzazione. D’altro canto, la Commissione europea ha recentemente ribadito il suo sostegno alla membership russa ed è improbabile che i governi europei la smentiscano.
L’esclusione della Russia dal G8, prospettata fra gli altri dal candidato repubblicano alla presidenza Usa, John McCain, sarebbe indubbiamente uno schiaffo per Mosca, che ha sempre mostrato di tener molto alla sua partecipazione ai massimi consessi internazionali. Ma una simile mossa equivarrebbe a una rottura aperta che potrebbe facilmente portare all’interruzione della cooperazione con la Russia su una serie di questioni internazionali che gli occidentali hanno molto a cuore, a cominciare dal programma nucleare iraniano. C’è poi chi ha suggerito che l’Occidente minacci di boicottare le Olimpiadi invernali, fortemente volute da Putin, che i russi devono organizzare nel 2014 a Sochi, città che si trova a ridosso dell’area di crisi, ma, come insegna la storia di altri boicottaggi dei giochi olimpici, è improbabile che ciò avrebbe un qualche effetto.
Ci sono poi le sanzioni economiche, che hanno l’indubbio vantaggio della flessibilità, potendo essere modificate e graduate a seconda dell’evolvere della situazione. E l’Ue sta seriamente considerando di adottare un pacchetto di sanzioni minori. Ma le sanzioni economiche sono spesso un’arma a doppio taglio e ciò è particolarmente vero per i rapporti, soprattutto quelli commerciali, che legano l’Europa alla Russia. I paesi europei dipendono pesantemente dal petrolio e dal gas russo e per questo, a meno di un ulteriore aggravamento della crisi nel Caucaso, difficilmente adotteranno sanzioni realmente incisive che possano spingere i russi a misure di rappresaglia. È possibile che l’Ue sospenda i negoziati con la Russia per il nuovo accordo di partenariato – senza cancellare quello in vigore – ma resta il fatto che gli europei sono molto più interessati dei russi ad un rinnovo dell’accordo, perché sperano di vincolare Mosca al rispetto di alcune regole in materia di energia e di commercio.
Il nodo del rapporto Nato-Russia
Non meno spinoso è il capitolo dei rapporti Nato-Russia. Anche qui né i paesi occidentali né la Russia sembrano per ora intenzionati a una rottura definitiva. La cooperazione militare è stata interrotta, così come la concertazione all’interno del Consiglio Nato-Russia. Non è questa d’altronde la prima crisi nei rapporti Nato-Russia, anche se è di gran lunga la più seria. In ogni caso, è importante che il Consiglio Nato-Russia non sia stato sciolto. Resta così la speranza che in futuro, se ne matureranno le condizioni, possa essere riattivato.
C’è infine la questione dei rapporti Nato-Georgia. La tesi, secondo cui se al vertice della Nato di Bucarest dello scorso aprile si fosse concesso di più alla Georgia – per esempio il Membership Action Plan (Map), il programma di cooperazione che è l’anticamera dell’adesione – si sarebbe potuto evitare il conflitto armato di quest’estate, è almeno altrettanto peregrina di quella secondo cui lo si sarebbe scongiurato, se si fosse escluso o rimandato ogni impegno a un futura integrazione di Tbilisi nell’alleanza. In realtà la dinamica conflittuale che ha portato allo scontro militare tra Georgia e Russia era in atto da molto tempo ed è davvero difficile trovare un legame diretto con quanto è stato deciso a Bucharest.
Non si deve fare ora l’errore di immaginare che, affrettando l’entrata della Georgia della Nato, si possa acquisire un qualche reale vantaggio nella situazione attuale. Ci sono altri modi per dare sostegno politico e assistenza militare alla Georgia. Ferma restando la promessa fatta a Bucarest che la Georgia diventerà prima o poi membro della Nato, l’alleanza dovrebbe ribadire il principio che vi possono essere accettati solo i paesi che soddisfino alcuni criteri fondamentali. Ed è un fatto che la Georgia, nella situazione di estrema precarietà in cui si trova, è ben lungi dal soddisfarli. Anche la concessione del Map, di cui si discuterà a dicembre, sarebbe una mossa prematura. Bisognerebbe semmai cercare di distogliere la leadership georgiana dall’idea fissa della membership nella Nato, quasi che l’appartenenza all’alleanza possa risolvere di colpo gli enormi problemi con cui deve misurarsi.
In conclusione una strategia punitiva nei confronti della Russia sembra al momento non solo scarsamente praticabile, ma nel complesso poco conveniente. Anche perché Mosca non sembra volere la rottura. Ma è essenziale che vengano garantiti alla Georgia non solo il sostegno politico, ma anche il necessario sostegno militare. D’altra parte l’atteggiamento occidentale non potrebbe non cambiare se la Russia continuasse a non rispettare l’accordo di cessate il fuoco o intraprendesse nuove iniziative aggressive in Georgia o in altre parti della suo ex-impero.