IAI
Caso Chen Guangcheng

Prove di dialogo tra Usa e Cina sui diritti umani

31 Mag 2012 - Claudia Astarita - Claudia Astarita

La Repubblica popolare cinese è in un momento di passaggio molto delicato. Ogni contrasto sul piano internazionale viene affrontato con fermezza per dimostrare alla popolazione e al mondo che la leadership è unita e non ha intenzione di piegarsi ai tentativi degli “arroganti stranieri” di interferire nelle questioni di politica interna.

La recente controversia tra Cina e Stati Uniti sul caso dell’avvocato autodidatta non vedente Chen Guangcheng, 40 anni, fuggito dalla Repubblica popolare dopo quattro anni di carcere e due e mezzo di arresti domiciliari per aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica la prassi degli aborti e delle sterilizzazioni forzate, ha confermato il nuovo corso “assertivo” di Pechino, ma anche una possibile evoluzione dei rapporti con Washington.

Affari interni
A marzo, qualche giorno prima che scoppiasse lo scandalo Bo Xilai, il capo del Partito comunista cinese (Pcc) di Chongqing, rovesciato nel più grande caso politico degli ultimi decenni, gli americani avevano attentamente evitato di immischiarsi nelle dinamiche interne al paese. Nell’occasione, infatti, Washington si era rifiutata di prendere in considerazione la richiesta di asilo politico avanzata da Wang Lijun, il “poliziotto traditore” di cui il Partito si è servito per far uscire definitivamente di scena Bo Xilai.

Non sapremo mai se, nel caso in cui la richiesta di asilo di Wang Lijun fosse stata accolta dagli Usa, il caso Bo Xilai sarebbe esploso lo stesso. Quel che è certo è che in quell’occasione gli americani (e gli inglesi prima di loro, giacché il poliziotto aveva chiesto protezione anche alle autorità britanniche) hanno agito con estrema cautela. Linea che, tuttavia, non hanno potuto ripetere quando alle porte dell’Ambasciata statunitense a Pechino ha bussato Chen Guangcheng.

In questo caso non era infatti in discussione l’equilibrio interno del Pcc, bensì la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali di uno dei dissidenti più famosi della Repubblica popolare. Un tema su cui Washington ha sempre dichiarato di non essere disposta a scendere a compromessi. Come Pechino, del resto, che tratta dissidenti e attivisti come sorvegliati speciali, nemici pericolosissimi, non come uomini coraggiosi che rischiano la vita per trasformare la Repubblica popolare in una nazione in cui libertà, uguaglianza e rispetto per i diritti umani non siano più dei tabù.

Acqua sul fuoco
Dopo un braccio di ferro durato varie settimane, Chen Guancheng è oggi libero di frequentare la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di New York. Non solo: il suo arrivo negli Usa potrebbe aver innescato un importante cambiamento nei rapporti tra Pechino e Washington e, indirettamente, anche con l’Europa. Per quanto sia troppo presto per capire se il “facile compromesso” con cui è stata risolta la vicenda del dissidente rappresenti un caso isolato o preluda all’apertura di una nuova era nei rapporti tra Cina e Occidente, i segnali positivi emersi da questa vicenda non possono essere sottovalutati.

Né Stati Uniti né Cina hanno alzato la voce quando si è trattato di decidere come affrontare il problema. Anzi, quando il dissidente ha pubblicamente condannato la prima intesa raggiunta, secondo la quale dopo l’evasione sarebbe comunque rimasto in Cina “protetto dagli americani”, i rappresentanti dei due paesi per evitare imbarazzi hanno immediatamente cercato un’altra soluzione. In tempi record: l’attivista si sarebbe infatti trasferito negli Usa insieme alla famiglia per studiare.

Il fatto che Pechino abbia evitato di riferirsi a Chen Guangcheng indicandolo come un “pericoloso criminale” e che quest’ultimo, una volta atterrato a New York, abbia ringraziato il suo paese per avergli restituito la libertà anziché criticarlo come avvenuto fino a pochi giorni prima, è stato un importante segno di distensione.

Nuova stagione?
La Cina ha dimostrato al mondo di essere ormai una grande potenza che ha acquisito la maturità per gestire ogni tipo di crisi e di aver compreso che è più conveniente sopportare all’interno lo smacco di un accordo con lo straniero su un “nemico dello stato” piuttosto che ritrovarsi con un dissidente (scomodo) in più in patria che continuerà a lungo a sollecitare le critiche della comunità internazionale.

Gli Stati Uniti, invece, hanno dimostrato all’Europa (e non solo) che sui diritti umani non transigono e che, da questo punto di vista, la fermezza paga. Anche con la Cina. Hanno dato prova di essere in grado di assecondare le richieste del dissidente e di sapergli imporre di interagire con il Pcc in maniera costruttiva. Infine, hanno spronato Chen Guangcheng a ringraziare anche Gran Bretagna, Canada, Francia e Svezia per “essere stati al suo fianco in questo difficile momento”, mettendo in evidenza che l’Occidente ha agito in maniera concertata.

Più difficile anticipare le ripercussioni della vicenda sui dissidenti rimasti in Cina. Il fatto che alla famiglia Chen sia stata data l’opportunità di ricostruirsi una vita non implica che gli attivisti ancora in prigione o agli arresti domiciliari avranno la stessa fortuna. Almeno fino a quando non riusciranno ad attirare l’attenzione dei media e della comunità internazionale come è riuscito a fare questo coraggioso avvocato cinese.

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