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Cina

La controversia sulle “terre rare” si globalizza

1 Ago 2012 - Giovanni Andornino - Giovanni Andornino

Nei primi sei mesi del 2012 si è sviluppato un silenzioso ma durissimo confronto tra Giappone, Stati Uniti, Unione europea e Repubblica popolare cinese (Rpc) sul commercio internazionale delle cosiddette “terre rare”. Dietro l’apparenza di una querelle tecnica, di cui si sta occupando l’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc), si cela in realtà un contenzioso di natura strategica con profonde ramificazioni geopolitiche, oltre che economiche.

Che la posta in gioco sia alta è reso evidente dalla scelta di Pechino di rendere pubblico, lo scorso 20 giugno, un Libro bianco dal titolo “Condizioni e politiche dell’industria cinese delle terre rare”. Questo genere di documento, predisposto dall’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato (la denominazione del governo nell’ordinamento cinese) e approvato dai massimi vertici politici della Rpc, viene considerato la più autorevole tra le fonti ufficiali utilizzate dalle autorità cinesi per rendere note al mondo le loro posizioni su alcuni temi di particolare importanza.

Cina come primo produttore
Le terre rare sono un insieme di 17 elementi chimici che trovano una varietà di applicazioni soprattutto in produzioni manifatturiere ad alta intensità tecnologica (incluso il comparto militare), risultando vitali in un settore particolarmente trainante come quello della green economy.

Sebbene tali elementi non siano effettivamente rari sulla crosta terrestre, negli ultimi vent’anni la Repubblica popolare cinese si è affermata come primo produttore al mondo, con una quota pari a circa il 97% del totale mondiale (era il 27% nel 1990, secondo dati riportati dalla U.S. Geological Survey).

Pur non possedendo dunque un monopolio delle riserve di terre rare (si stima che in territorio cinese ve ne siano tra il 23% e il 50%, con Stati Uniti, Australia e India tra gli altri paesi detentori di concentrazioni rilevanti), la Rpc di fatto ne esercita uno in termini di produzione. Una legislazione ambientale poco sviluppata e scarsamente applicata, il rapido sviluppo delle tecnologie nel comparto minerario e il progressivo consolidamento dell’industria estrattiva hanno favorito il concentramento in territorio cinese non solo dei processi upstream, ma anche delle successive fasi nella filiera estrattiva: frantumazione, separazione e raffinazione delle terre rare.

Nel 2011 gli Stati Uniti risultavano così dipendere per il 100% da importazioni dalla Cina, e si stima che in una situazione analoga stiano l’Unione europea e, in special modo, Giappone. Le industrie elettronica e automobilistica giapponesi sono particolarmente esposte, come sottolineato dall’influente Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria di Tokyo (Meti).

Restrizioni della Cina sull’esportazione di “terre rare”
Il quadro è estremamente delicato per una concomitanza di tre fattori. Il primo è costituito dalla crescita della domanda globale – stimata dal Congresso Usa in circa 136.000 tonnellate, a fronte delle 133.600 prodotte nel 2010, con relativo assottigliamento delle riserve in vari paesi. Il secondo riguarda i tempi molto dilatati con cui possono entrare nel circuito economico nuove produzioni, data la complessità di attivare (o ri-attivare) miniere che, specialmente nei paesi avanzati, richiedono speciali accorgimenti per la tutela dell’ambiente.

Ma è soprattutto il terzo fattore – la nuova politica cinese sulle terre rare – ad aver suscitato allarme nelle maggiori cancellerie e industrie del mondo. Divenuta il primo consumatore al mondo di terre rare nel 1989, nel 1990 la Rpc ha dichiarato strategico questo settore minerario, vincolando l’ingresso di imprese straniere nel settore.

Successivamente, a partire dalla seconda metà degli anni 2000, il governo cinese ha imposto crescenti restrizioni all’estrazione di terre rare, citando – come riportato dal Libro bianco – l’eccessiva riduzione delle riserve nazionali, drammatici danni ambientali e un rapporto costi-benefici non adeguato, vista la relativa stagnazione dei prezzi sino al 2006 (particolarmente evidente se confrontata con la dinamica dei prezzi di minerali come ferro, oro e platino). Infine, per poter rispondere alla domanda interna e sfruttare al meglio la propria condizione di temporaneo monopolista, Pechino ha fissato una quota annuale massima per l’esportazione di terre rare e, nel 2011, incrementato fortemente la loro tassazione.

Secondo dati della Commissione europea, le restrizioni imposte dalla Rpc hanno impedito di rispondere alla domanda internazionale (nel 2010 pari a 50-60.000 tonnellate, a fronte di una quota-limite di 30.000 tonnellate), provocando una spirale nei prezzi che ha toccato il picco nella prima metà del 2011 (tra +500% e +1.000% per tutti gli elementi). Altrettanto significativo è che i prezzi delle terre rare per gli acquirenti stranieri siano anche il doppio di quelli sostenuti dalle controparti cinesi, un fenomeno che ha forzato una serie di imprese a reinsediarsi in territorio cinese per non perdere di competitività.

Contenzioso con la Cina presso Omc
Sebbene il Libro bianco del governo cinese sottolinei la determinazione di Pechino a rispettare le normative Omc e auspichi la non politicizzazione della politica cinese delle terre rare, Giappone, Stati Uniti e Unione europea hanno per la prima volta optato per un’azione concertata a tre presso l’Omc, avviando il 13 marzo scorso consultazioni con la Rpc in merito alle restrizioni da questa imposte sull’esportazione di varie terre rare, tungsteno e molibdeno. Il successivo 26 marzo il Canada si è unito alla procedura di consultazione, che costituisce il primo passo in una disputa presso l’Omc.

I quattro paesi si avvarranno delle argomentazioni che lo scorso 30 gennaio hanno consentito a Stati Uniti, Unione europea e Messico di vincere presso l’organo di appello dell’Omc un cruciale contenzioso con la Rpc su un tema analogo, riguardante l’imposizione di restrizioni all’esportazione di determinate materie prime. In quel caso le tariffe imposte da Pechino furono giudicate illegali perché imposte su prodotti non appartenenti alla lista degli 84 ammessi a norma del Protocollo di accesso della Rpc all’Omc.

Analogo giudizio è stato espresso sulle quote fissate per l’esportazione dei medesimi prodotti, che, secondo Pechino, sono necessarie per ragioni ambientali: l’organo di appello dell’Omc ha precisato come, a norma dell’articolo XX (commi B e G) del General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt), qualsiasi restrizione all’esportazione per motivi di tutela dell’ambiente e conservazione di risorse deperibili deve accompagnarsi a effettive riduzioni o restrizioni della produzione e del consumo all’interno del paese. Considerato il costante aumento dei consumi di terre rare in Cina (+400% tra il 2000 e il 2010) non sarà quindi semplice per gli avvocati della Rpc tenere il punto.

Al contempo, la diplomazia cinese dovrà andare ben oltre i contenuti del Libro bianco se vorrà convincere l’opinione pubblica e la stampa internazionale, già sollecitate negli ultimi due anni da una serie di articoli del New York Times su un presunto “embargo informale” attuato dalla Rpc ai danni del Giappone come ritorsione per un incidente navale di lieve entità nel Mar della Cina orientale, nei pressi dell’arcipelago conteso delle Senkaku / Diaoyu.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

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