L’America divisa di Barack Obama
Tutti sanno che Barack Obama è stato rieletto presidente degli Stati Uniti martedì 6 novembre. Ma, formalmente, non è proprio così: il presidente degli Stati Uniti 2013-2016 sarà eletto il 6 gennaio, quando il Congresso, in seduta congiunta, conterà i voti espressi dai Grandi Elettori il 17 dicembre, quando si riuniranno in ogni Stato. Ma il risultato delineato il 6 novembre non è in discussione: infatti, il mandato affidato ai Grandi Elettori è pressoché vincolante e le sorprese sono escluse.
Manbassa
Nell’Election Day, l’America ha concesso un secondo quadriennio al primo nero alla Casa Bianca con un verdetto più netto del previsto, in termini di Grandi Elettori (332 a 206, dopo che la Florida, con 48 ore di ritardo, s’è colorata di blu democratico), e anche con la maggioranza, neppure risicata, del voto popolare.
Nella decina di Stati in bilico alla vigilia, Obama ha fatto quasi manbassa, lasciando al suo rivale, Mitt Romney, candidato repubblicano, solo la North Carolina: s’è imposto in New Hampshire e Pennsylvania, in Michigan e Wisconsin, in Nevada e Colorado; ed ha fatto suoi pure lo Iowa, l’Ohio contesissimo, la Virginia dall’equilibrio esasperato, la Florida che ormai s’abbona al rito della riconta.
Il presidente confermato ha annunciato la sua rielezione con una raffica di tweet e una foto -stile ‘bacio a Times Square’- dell’abbraccio liberatorio con la moglie Michelle: “Quattro anni ancora”, “Quattro anni ancora insieme”.
Al candidato repubblicano, resta la consolazione d’una larga affermazione nella fascia della Bibbia e nel Sud, nelle Grandi Pianure e lungo le Montagne Rocciose. E, rispetto alla vittoria di Obama quasi a valanga nel 2008 su John McCain, Romney recupera la North Carolina e l’Indiana: non gran che come bottino, soprattutto alla luce della crisi economica senza precedenti e dell’enorme flusso di risorse di cui ha goduto Romney, anche rispetto al McCain.
Comunque non abbastanza per rovesciare il verdetto. Il distacco è così netto che Obama avrebbe vinto anche perdendo nei tre Stati considerati chiave, Ohio, Virginia e Florida: sottraendo ai suoi 332 Grandi Elettori i 18 dell’Ohio, i 13 della Virginia e i 29 della Florida, ne restano 272, più della maggioranza necessaria di 270 sui 538 del Collegio Elettorale.
Voto popolare
A livello nazionale, Obama, alla fine, l’ha spuntata, dopo essere stato per ore sotto nei conteggi, perché arrivano prima i risultati degli scrutini delle zone di campagna meno densamente abitate, dove i repubblicani sono più forti.
Il presidente in carica ottiene il 50,2% dei suffragi e, quindi, la maggioranza assoluta dei voti espressi, contro il 48,3% a Romney, con uno scarto di 2,5 milioni di schede: 61,7 milioni di suffragi contro 59,3, per oltre 120 milioni di votanti, un’affluenza buona, ma inferiore a quella del 2008, quando la capacità di mobilitazione dell’elettorato da parte dei candidati era stata superiore.
Le analisi dei prossimi giorni diranno in che misura i giovani e le donne siano stati ‘obamiami’, oppure gli anziani e gli uomini specie bianchi ‘romnyani’; e in che misura i neri e i latini abbiano sostenuto Obama. Un fattore importante della vittoria del presidente è stata l’affluenza alle urne, piuttosto alta per i canoni americani specie, negli Stati in bilico e anche là dove l’uragano Sandy aveva colpito a fine ottobre.
Obama ha saputo superare, in una campagna durata quasi un anno e mezzo, il momento di crisi, all’inizio d’ottobre, dopo il primo duello in diretta tv con Romney, dal quale era uscito nettamente sconfitto. E proprio la risposta offerta dall’Amministrazione democratica alle minacce e alle rovine dell’uragano Sandy, a fine ottobre, ha ravvivato in molti americani il rispetto per le doti di comandante in capo dell’inquilino della Casa Bianca, l’uomo che ha eliminato Osama bin Laden, il ‘nemico pubblico numero 1’, anche se non ha ancora sconfitto la crisi.
L’immagine dell’America che esce dal voto è quella di un paese diviso, dove la Camera, totalmente rinnovata, ricalca la precedente nella composizione, con una netta maggioranza repubblicana, mentre il Senato, rinnovato per un terzo, resta sotto il controllo dei democratici, che recuperano pure il seggio feticcio del Massachusetts occupato per oltre trent’anni da Ted Kennedy e strappato loro dai repubblicani alla sua morte, ma che non ottengono la maggioranza di blocco dell’ostruzionismo dell’opposizione.
Anche i risultati di alcuni degli oltre 170 referendum locali danno l’immagine di un’America a tratti schizofrenica tra diritto alla vita e pena di morte, difesa dei valori tradizionali e lassismo. Così, la California decide di mantenere la pena di morte e la Florida avalla il finanziamento pubblico per l’aborto, mentre Stato di Washington e Colorado danno via libera al consumo di marijuana e New Hampshire e Maine legalizzano le coppie omosessuali.
Impatto internazionale
L’Unione europea si congratula e, in fondo, tira un respiro di sollievo; e il mondo fa lo stesso. Meglio avere ancora a che fare con il ‘vecchio’ Obama, 51 anni, che con il ‘nuovo’ Romney, 65. E, del resto, pure l’America la pensa così.
I presidenti europei del Consiglio e della Commissione, Herman Van Rompuy e José Manuel Barroso, esprimono insieme le loro “vive congratulazioni” e s’impegnano a “portare avanti la stretta collaborazione già stabilita in questi anni per rafforzare ulteriormente i nostri legami bilaterali e affrontare insieme le sfide globali, in particolare nei settori della sicurezza e dell’economia”.
Il presidente italiano Giorgio Napolitano parla di un mandato ad Obama “per superare la crisi” ed esprime “ammirazione” per il senso di responsabilità dei candidati (magari, c’è pure un pizzico d’invidia, pensando ai comportamenti italiani). Il premier Mario Monti è felice di potere ancora lavorare insieme ad Obama, con cui ha allacciato un rapporto fruttuoso. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi commenta che la permanenza di Obama alla Casa Bianca “rappresenta un’ulteriore grande opportunità per l’Unione europea e per l’Italia”.
E messaggi analoghi arrivano da Parigi come da Berlino, da Madrid e persino da Londra, dove pure David Cameron parla in economia più la lingua di Romney che quella di Obama (ma c’è di mezzo la relazione speciale tra Stati Uniti e Gran Bretagna).
C’è sempre una patina di ipocrisia diplomatica in queste reazioni. E tutte le cancellerie avevano bell’e pronta un’analoga versione di messaggi di congratulazione a risultato elettorale capovolto. Ma non è difficile credere che le felicitazioni per Obama siano più sincere e più spontanee di quanto non sarebbero state quelle per Romney. Il presidente nero è il primo, e finora unico, leader di un grande paese occidentale a sopravvivere, in un voto, alla crisi: Gran Bretagna, Spagna e Francia decisero per l’alternanza; l’Italia non ha neppure avuto bisogno di votare; quanto alla Germania, la prova del nove sarà nelle politiche 2013.
C’era una volta in America
Nel discorso per la vittoria, Obama prospetta un’America “generosa, misericordiosa, tollerante e aperta”, un’America immagine di quel sogno di cui lui presidente è testimonianza e un’America esempio al mondo intero. Adesso, arriva il “momento dell’azione”: il candidato visionario e messianico della campagna 2008 è poi stato un presidente pragmatico, alle prese con le difficoltà della crisi e con un Congresso a metà in mano all’opposizione. Ora, il candidato a tratti spento e persino abulico della campagna 2012 vuole mantenere le sue promesse. Anche se l’azione passa attraverso la ricerca d’un compromesso con i repubblicani, sul debito, gli sgravi, la crescita.
Nell’accettare la sconfitta, Romney si mette a disposizione del presidente per “lavorare insieme”. Un’offerta che Obama accoglie, prospettando un incontro per raccogliere dall’ormai ex rivale suggerimenti e proposte per la gestione dell’economia e la creazione di posti di lavoro.
Ma Romney non è il futuro dei repubblicani, anche se, a un certo punto, complice l’appannamento di Obama, aveva dato l’impressione di potercela fare: nonostante le gaffes e la fama da ‘flip-flop’, noi diremmo ‘girella’, e il paradosso dell’ostracismo alla riforma sanitaria nazionale democratica ricalcata su quella da lui attuata in Massachusetts.
A tradirlo, negli ultimi giorni, è stata la voglia dell’America di andare avanti: forward, come diceva lo slogan elettorale di Obama. Lui puntava sul cambiamento, quello vero, diceva, real, giocando su un tema cavalcato nel 2008 dal suo rivale. Gli elettori hanno però deciso di concedere altri quattro anni al presidente nero per realizzare il suo cambiamento, perché hanno capito che il nuovo di Romney era un andare indietro, alle vecchie ricette del liberismo reaganiano, per di più con i toni esasperati del populismo Tea Party corteggiato dal suo vice Paul Ryan. E c’era pure il rischio di ripiombare nelle melassa finanziaria dell’era Bush, finita come tutti ricordano con lo scoppio di questa crisi.
Per Romney, pare proprio la fine della corsa. Verso le presidenziali 2016, il partito repubblicano deve porsi degli interrogativi: migliorare il proprio rapporto con le minoranza americane, specie neri e latini, ed allargare la propria base demografica, che va restringendosi agli uomini bianchi sopra i 65 anni; ed evitare di identificarsi con il Tea Party, la cui presa sull’elettorato s’è attenuata.
La linea del confronto duro Amministrazione-opposizione, praticata negli ultimi due anni, potrebbe essere rivista: Obama non è più il nemico da abbattere, perché nel 2016 sarà fuori gioco; e cercare di costruire rende più credibili che limitarsi a distruggere. Dietro Romney, già spuntano gli aspiranti alla nomination 2016: personaggi che erano potenziali protagonisti questa volta, ma che si sono tirati indietro, come gli ex governatori Mike Huckabee e Sarah Palin; o giovani rimasti alla finestra, come il senatore Marco Rubio o il governatore Chris Christie; o, infine, astri nascenti, come il vice di Romney, Paul Ryan. Sempre che la sconfitta del capo non l’abbia già bruciato.
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