La politica estera americana che verrà
I secondi mandati hanno offerto ai presidenti Usa l’opportunità di lanciare iniziative di politica estera impegnative, liberi dai condizionamenti legati alla rielezione, e apportare correzioni di rotta anche importanti. I precedenti recenti non mancano. George W. Bush provò a sanare la relazione con gli alleati europei dopo le tentazioni unilateraliste del primo mandato. Al contempo scelse un segretario di Stato più fedele e ‘falco’ nel passaggio da Colin Powell a Condoleezza Rice.
L’eredità internazionale di Bill Clinton si perfezionò negli ultimi quattro anni, con l’intervento militare contro Belgrado, l’allargamento della Nato ad Est, l’accelerazione impressa all’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), i successi in Asia con il processo di riconciliazione con il Vietnam e i fallimenti in Medio Oriente con l’arresto del processo di pace. Clinton scelse nuovamente un segretario più vigoroso e ‘falco’ nel secondo mandato, nel passaggio da Warren Christopher a Madeleine Albright, la prima donna a Foggy Bottom, ceca di origine ma famosa per aver definito l’America la ‘nazione indispensabile’.
Continuità
Il secondo mandato di Obama potrebbe cominciare all’insegna della continuità. Con il ritiro della candidatura al dipartimento di Stato – giustamente ritenuta azzardata – di Susan Rice, invisa sia ai repubblicani che a parti importanti dell’establishment delle stesse Nazioni Unite di cui dovrebbe essere paladina, la scelta è caduta sul temperato, e secondo alcuni troppo pallido, John Kerry.
Con Kerry, se come sembra sarà confermato dal Senato, è probabile che la politica estera Usa, almeno in una prima fase, continui ad essere di fatto decisa alla Casa Bianca, come è avvenuto del resto nella prima parte del primo mandato di Obama. Col tempo, risolti i dissapori delle primarie e istauratosi un rapporto di stima, Hillary Clinton si è ritagliata un ruolo sempre più di rilievo, guadagnandosi anche quote di autonomia che sono poi pesate anche sugli orientamenti dell’amministrazione.
Al momento, invece, risulta difficile individuare temi o aree su cui Kerry avrebbe le carte o l’ambizione di distinguersi, e tanto meno di distanziarsi significativamente, da Obama. Da presidente della Commissione esteri del Senato, Kerry è stato coinvolto in tutti i principali dossier di politica estera. Ha sviluppato un interesse particolare e mostrato doti e opinioni proprie nella difficile e delicata relazione con il Pakistan e l’Afghanistan, relazionandosi direttamente con leader problematici come il presidente afgano Hamid Karzai. Ha assunto posizioni dure contro la Cina sulle manipolazioni delle regole sul commercio, ma è apparso a volte colpevolmente vago sulle crisi mediorientali, sostenendo l’intervento in Libia ma riponendo inizialmente fiducia nella capacità di Damasco di risolvere pacificamente le tensioni interne, poi sfociate nella guerra civile.
Agli europei piacerà che Kerry condivide un orientamento europeista e atlantista non diverso da quello della Clinton, e più istintivo di quello di Obama, che solo col tempo sta sviluppando un attaccamento per l’Europa (che invece, come aveva candidamente scritto, non aveva prima di diventare presidente).
La stabilità offerta da Kerry potrebbe tuttavia disincentivare la Casa Bianca dal portare avanti quei cambiamenti di cui l‘azione internazionale del paese ha invece bisogno. Un secondo mandato nel solco della totale continuità rischierebbe infatti di non cogliere le lezioni che già Hillary Clinton negli ultimi due anni aveva offerto e applicato, anche come correzioni al corso inizialmente scelto da Obama.
Luci e ombre
La politica di Obama ha avuto un grande pregio e un grande difetto, due facce della stessa medaglia. Il presidente si è con successo lasciato alle spalle la difficile eredità di Bush, restaurando l’immagine e la credibilità dell’America nel mondo. Ha anche scelto un approccio pragmatico anziché ideologico e manicheo, fondato sulla lucida consapevolezza che nel mondo più multipolare del ventunesimo secolo, il grande potere di cui gli Usa ancora godono si può esprimere efficacemente solo dando vita a coalizioni di forze più ampie.
Il limite principale della politica estera di Obama è stato invece che la comprensione dei delicati equilibri delle forze in gioco, che fu la più grave carenza di Bush, si è a volte accompagnata ad un approccio non solo più modesto, ma anche più reattivo, se non rinunciatario. Come si è visto, ad esempio, nei confronti della Russia e di altri partner problematici, con i quali era necessario riallacciare una dinamica di cooperazione.
Obama ha anche presto scoperto che un cambio di tono ed una maggiore apertura non avrebbero di per sé portato a progressi profondi, come è stato per l’Iran fino all’inasprimento delle sanzioni e per la Cina fino al momento in cui il segretario Clinton ha scelto una linea più assertiva.
L’iniziale approccio che enfatizzava le istituzioni internazionali, la politica della mano tesa, l’idea che le relazioni tra potenze, nello spazio post-sovietico come nel teatro asiatico passando per lo scacchiere mediorientale, non deve essere a somma zero, è stato nel corso dei primi quattro anni significativamente corretto in senso realista dalla Clinton. Quest’ultima ha riproposto in parte l’approccio della Albright, un atteggiamento pragmatico ma non meno basato sui valori, che guarda al multilateralismo non tanto come principio, quanto come strumento da utilizzare nei casi in cui sia davvero efficace.
La Clinton ha inoltre cercato di entrare in rapporto con gli interlocutori da posizioni di forza, vincolando le aperture a concessioni da parte di paesi rivali e a assunzioni di responsabilità da parte di attori regionali in cerca di spazio, come la Turchia, e di attori emergenti o ri-emergenti, come la Cina.
Priorità
Questo approccio corretto deve fare ancora i conti con partite dichiarate chiuse troppo in fretta. È auspicabile che su queste ultime si concentrerà la politica estera americana nel 2013 e oltre. La partita dell’Asia continuerà ad essere la più strategica. Ma il “pivot to Asia” non può significare una fuga da un Medio Oriente sempre più globale e multipolare, destinato a rimanere terreno centrale del confronto tra poteri e modelli di sviluppo politico ed economico alternativi.
Per evitare che il ritiro dall’Afghanistan avvenga lasciandosi alle spalle equilibri precari e dinamiche ostili, come nel caso del disimpegno strategicamente avventato dall’Iraq, serve il coinvolgimento di vari partner regionali, ma anche dell’Iran.
Obama dovrà dunque allargare il dialogo con Teheran, che già viene ricercato sul nucleare, a questioni più ampie di sicurezza regionale. Sarà questo sentiero strettissimo, ma anche critico per gli interessi occidentali e la stabilità regionale, il passaggio obbligato. Pena l’allargamento dei focolai di conflitto e il coinvolgimento, in essi, anche di Stati Uniti ed Europa.
Obama dovrà infatti riattivare una relazione più strategica con l’Europa per contenere le turbolenze che caratterizzano, in forme diverse, l’ampia area che va dallo spazio post-sovietico a quello post-ottomano. La crisi europea è stata compresa dall’amministrazione Usa nelle sue implicazioni economiche. Ma è tempo nel secondo mandato di esplicitare maggiormente le interdipendenze politiche tra Stati Uniti ed Europa nella fase di transizione internazionale corrente.
Il progetto di area di libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico, che Hillary Clinton ha già lanciato a dicembre e che verrà formalizzato nelle prossime settimane, per quanto di laboriosa attuazione, può essere una chiave di volta. Ma solo se l’iniziativa economica servirà ad attivare incentivi strategici di lungo termine.
Un Kerry a suo agio nelle capitali europee potrebbe cominciare da questo, offrendo al contempo energie e risorse critiche all’azione della Casa Bianca, limitata dalle pressanti emergenze economiche interne, nell’ingarbugliato rebus mediorientale.
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