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Due anni di transizione

L’Italia davanti alla svolta birmana

7 Mar 2013 - Andrea Goldstein - Andrea Goldstein

Due anni dopo aver avviato un ambizioso processo di transizione politica ed economica, il presidente birmano Thein Sein è in visita in Europa. Durante la tappa romana del 6 e 7 marzo, il Presidente Napolitano e il Primo ministro Monti hanno confermato che l’Italia sostiene le riforme in Myanmar, con la firma di accordi di condono di parte del debito e di conversione del rimanente in progetti di sviluppo. Testimonianza eloquente che, anche in un momento tanto critico come quello attuale, il nostro paese mantiene fortunatamente un profilo attivo e responsabile in Asia, la regione che è destinata a trascinare l’economia mondiale al di fuori delle sabbie mobili della crisi.

Apertura
Molto è accaduto in Myanmar nell’ultimo biennio. Dopo aver trascorso due decenni agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi è stata liberata, eletta in Parlamento e ha potuto viaggiare a Oslo per ritirare il Premio Nobel per la Pace – 21 anni dopo esserne stata insignita. Imposte da Stati Uniti ed Europa per punire la dura repressione dei movimenti democratici del 1998, le sanzioni occidentali sono state in gran parte sospese e le visite di dignitari stranieri si susseguono: da Obama a Ban Ki-moon, passando per Cameron, Barroso, capi di stato e di governo asiatici, ministri degli Esteri europei tra cui Terzi.

Siglato a gennaio, l’accordo con i creditori del Club di Parigi per dimezzare il debito estero, consente a Myanmar di collaborare nuovamente con la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo. Pur lento e contrastato, l’avvio di riforme economiche fa affluire i capitali internazionali, ansiosi di penetrare quello che appare come l’ultimo mercato di frontiera, forte di una posizione strategica tra Cina, India e Asia del Sudest, vaste risorse naturali, manodopera a buon mercato e una popolazione di 60 milioni.

Myanmar è al centro di giochi strategici complessi e rappresenta una prova importante per la comunità internazionale. Pechino s’interroga sulle ragioni che hanno spinto Thein Sein ad affrancarsi dall’invadenza cinese, cresciuta a dismisura nel lungo periodo dell’isolamento. La Cina ha confuso l’incontrastato potere economico e politico che andava accumulando con una licenza a fare qualsiasi cosa: costruire infrastrutture scadenti, inondare il mercato interno con prodotti di bassa qualità, sfruttare senza ritegno il patrimonio naturale e mostrare scarso rispetto per le preoccupazioni della popolazione birmana.

Il crescente risentimento di fronte a questi comportamenti ha spinto Myanmar a cercare nuovi alleati e Thein Sein a cancellare un mega-progetto idroelettrico che, in un paese in cui la maggior parte della popolazione non ha accesso alla rete elettrica, destinava tutta la produzione all’esportazione verso la Cina. I cinesi si lamentano ora dell’ingratitudine birmana, anche se non sono certo scomparsi dalla scena – l’oleodotto dal porto di Kyaukpyu alla provincia di Yunnan, che permetterà di importare dal Medio Oriente senza transitare dallo Stretto di Malacca, sarà operativo in maggio – e stanno lentamente apprendendo l’arte complessa della responsabilità sociale delle imprese.

Iniziativa occidentale
In contemporanea nelle cancellerie occidentali si assiste a una corsa alla diligenza per accreditarsi il successo della transizione. Alcuni sostengono che a piegare la giunta siano state le sanzioni e poi l’apertura che Obama ha promesso anche agli antagonisti più irriducibili di Washington in cambio di progressi reali. Donatori e governo hanno concordato un percorso d’interventi per accelerare la crescita economica e raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del millennio.

L’enfasi è posta su misure che possono produrre risultati entro il 2015: dal concedere autonomia operativa alla banca centrale, per guadagnare credibilità agli occhi della finanza internazionale, alla liberalizzazione delle telecomunicazioni per ridurre le lunghissime liste d’attesa per avere un telefonino e all’abolizione del divieto di circolazione per i motorini a Yangon, la capitale economica.

Per altri invece la spiegazione dell’apertura va cercata nelle porte del dialogo che i paesi asiatici hanno sempre lasciato aperte, soprattutto perché ha finito col convincere molti sostenitori del regime che Myanmar stava perdendo pericolosamente il treno dell’Asian Century. Adesso Giappone e Corea, ma anche i paesi del Sudest asiatico, sono in prima linea nel cercare opportunità di business. Dopo i tailandesi qualche anno fa con un grande progetto per una zona economica speciale nel Sud, adesso investitori malesi e indonesiani stanno costruendo nuovi cementifici, i giapponesi sono impegnati per le telecomunicazioni e i coreani nelle infrastrutture. Attenzione al massimo livello: è in Myanmar che Taro Aso, il ministro delle Finanze, ha realizzato il primo viaggio all’estero di un membro del nuovo esecutivo giapponese.

Tutti concordano che il modello di sviluppo deve essere democratico e centrato sulla popolazione, e i paesi donatori sono pronti a fare la propria parte e sostenere il governo, ma non sono disposti a firmare assegni in bianco. Chiedono programmi solidi, processi trasparenti e risultati concreti e monitorabili.

Del resto la data del 2015 per realizzare riforme a impatto immediato non è casuale: è l’anno delle elezioni presidenziali e il Partito unitario della solidarietà e dello sviluppo vuole giocarsi le sue carte ed evitare se possibile che si ripeta l’umiliante risultato delle mini-legislative di aprile 2012 – quando il partito di Aung San Suu Kyi ha conquistato 43 dei 45 seggi in palio. La Costituzione non consente però alla Lady di presentarsi, perché ha sposato uno straniero e i suoi figli sono nati all’estero, ma non è detta l’ultima parola. Annunciata a settembre di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la disponibilità di Thein Sein a rivedere il dettato è stata recentemente confermata in un’intervista all’emittente britannica Bbc.

Lunga marcia
Certo le sfide da affrontare sono molteplici. Lontano dagli alberghi carissimi e sempre pieni di Yangon, Myanmar è un paese ancora molto povero: gli indici di scolarità, salute e mortalità infantile sono inferiori a quelli nel resto dell’Asia sudorientale, il rispetto dei diritti dei lavoratori è scarso, il traffico di persone rimane una tragedia immane e i milioni di birmani che vivono all’estero (Tailandia soprattutto, ma anche Malesia, Kuwait, Corea) raramente godono di protezione adeguata. La prospettiva di fare del paese un polo economico per la regione più dinamica dell’economia mondiale si scontra con la realtà – infrastrutture vetuste e corruzione diffusa – e solleva interrogativi sulla sostenibilità ambientale.

In più, distante dalla sonnolenta tranquillità di Nay Pyi Taw, la nuova capitale costruita dai cinesi in piena giungla, si combattono con accanimento conflitti decennali. Certamente progressi reali sono stati ottenuti dopo gli accordi di cessate il fuoco con dieci degli 11 movimenti etnici. Ma la situazione è fragile, soprattutto nello stato settentrionale del Kachin dove le forze armate hanno recentemente lanciato un’offensiva terrestre e aerea per indebolire la Kachin Independence Army.

Scontri sempre più intensi alla frontiera con la Cina, tanto che in più occasioni gli ordigni sono atterrati oltre il confine. Pechino teme un’ulteriore escalation e ha invitato ambedue le parti a attuare un cessate il fuoco, anche perché non sembra pronta a modificare la propria posizione sui rifugiati – chiudere le frontiere e ripatriare chi è riuscito ad entrare nello Yunnan.

La tripla transizione di Myanmar – dalla dittatura alla democrazia, dalla chiusura economica alla globalizzazione, dal conflitto alla pace – non sarà immediata. Gli ostacoli sono alti e gli interessi in gioco sono molti e complessi. Ma la leadership delle autorità, l’impegno dei donatori, l’entusiasmo dei birmani, la posizione del paese, sono tutti elementi che permettono di essere ottimisti. Dai risultati dipendono l’avvenire di milioni di persone che lottano quotidianamente per un futuro più degno e la credibilità dell’agenda multilaterale per la cooperazione allo sviluppo, che assegna responsabilità a tutti gli attori.

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