Trump presidente, wait and see
La vittoria di Donald ha colto molti di sorpresa in primis per una ragione oggettiva, ovvero la difficoltà ad interpretare la pancia del Paese attraverso i sondaggi che hanno decisamente sottovaluto il fenomeno.
Vi è anche una ragione soggettiva che ha condizionato commentatori ed analisti, ovvero la loro forte identificazione con la candidatura di Hillary Clinton e il rifiuto della candidatura di Trump, spesso percepita e presentata come impraticabile perché politicamente scorretta.
Il sostegno maturato attorno alla candidatura di Trump doveva però portare gli analisti a prendere più seriamente la sua candidatura, non escludendo una vittoria, come fatto su questa testata durante l’estate.
La democrazia Usa non è a rischio
Con l’insediamento di Trump bisognerà ora rivedere l’interpretazione del fenomeno Trump, adottando nuove lenti per leggere la sua presidenza. La delusione seguita alla disfatta di Clinton è tale fra l’intelligentsia e l’establishment americano, ma anche all’interno di quello europeo, che risulta difficile scendere dal carro partigiano per tornare alla valutazione delle politiche, anche nella loro dimensione internazionale.
Bisogna però procedere ricordando una serie di capisaldi. Prima di tutto va sottolineato la solidità delle istituzioni Usa con un potere ben articolato fra esecutivo, legislativo e giudiziario. Tra l’altro, già in un passato recente abbiamo assistito alla vittoria di personalità che non rispettavano i criteri canonici dell’establishment politico statunitense, ad esempio Ronald Reagan, senza che questo significasse un’interruzione della democrazia americana.
Il presidente non governa da solo, ma deve rapportarsi con il Congresso che ormai resterà a maggioranza repubblicana. Si tratta certo di uno schieramento monocolore ma che non appare però come il “partito del presidente”, visti i numerosi screzi fra i responsabili del partito e Trump che per certi versi ha preso all’arrembaggio questo partito.
Ci sarà quindi una dialettica fra Presidenza e parlamento che produrrà esiti diversi dagli slogan di campagna.
Il successo della campagna anti-establishment di Trump
La campagna di Trump è stata vinta con un forte discorso identitario, invocando il ritorno al primato americano. Questo tipo di inclinazione nazionalista spinge oggi molti a temere un isolazionismo nonché la rottura di una serie di alleanze o addirittura l’uscita dai quadri multilaterali.
Certamente questo tipo di messaggio si è riscontrato in una campagna con toni anti-establishment che sconfinavano spesso nella xenofobia. Ma non bisogna però programmare a tavolino le politiche della presidenza Trump prima che vengano decise e attuate, come se si proseguisse una campagna elettorale che da toni catastrofici dovesse necessariamente portare alla catastrofe.
Vanno evitatele profezie auto realizzatrici che contribuiscono a considerare la futura presidenza in termini di rottura nociva o instabilità. E’ quindi urgente aspettare.
In aggiunta, si possono sin da ora ricordare alcuni elementi che aiutano a relativizzare i messaggi della campagna. In primis va ricordato che parecchie promesse fatte in campagna elettorale restano tali quando si va al potere. Secondo, Trump era un candidato con un ristretto team che si è imposto al partito repubblicano. Adesso che è presidente dovrà appoggiarsi su un numeroso staff con competenze articolate e all’interno di una dialettica politica con il Congresso.
Ci saranno certamente alcune evoluzioni interne, a partire dalla nomina del giudice della corte suprema che deve sostituire Scalia. Già questa nomina potrebbe imporre un tono sicuramente conservatore su questa importante istituzione, con conseguenze sulle questioni dei diritti fondamentali.
Ci saranno poi conseguenze sulle politiche sociali ed economiche. La crescita della disuguaglianza è stata una delle principali tematiche della campagna di Trump. come del resto di quella di Bernie Sanders. Ciononostante, non si riesce a immaginare una presidenza Trump con una svolta sociale se non addirittura socialista.
La paura dell’isolazionismo di Trump
Nel contesto internazionale molti temono l’isolazionismo della futura presidenza Trump. Anche le considerazioni sul potenziale isolazionismo vanno però prese con le pinze. Accanto a questioni di forte simbologia come quella dell’immigrazione proveniente dal Messico, certamente Trump è una figura business friendly che difficilmente smonterà il quadro commerciale e di prosperità legato ad accordi multilaterali.
Tra l’altro, già nelle vesti di candidato Trump appariva spesso come quello della vecchia industria e dell’immobiliare di fronte alle aziende di tecnologia e media californiane tradizionalmente vicine al campo democratico.
Ma quell’enorme serbatoio di investimenti e di ricerche, anche legato all’avanzamento tecnologico della sicurezza nazionale statunitense, difficilmente può essere ignorato dal potere federale, con tutte le implicazioni in termini di relazioni internazionali (commercio ma anche regolamentazione).
In generale poi, i repubblicani hanno spesso mostrato una loro prudenza nell’intervenire negli affari del mondo, per poi non esitare nell’adoperare strumenti militari nei confronti di nemici che minacciavano interessi o alleanze statunitensi nel globo.
La presidenza Trump apre una nuova era, con una serie di attese da parte di un elettorato che spera in segni di ripresa del discorso identitario, quel racconto che imparenta tutti con i discendenti della Mayflower e che ristabilisce il senso del primato americano, o in modo più corretto, l’auto percezione positiva che gli americani hanno della loro storia e del loro modo di vivere.
Questa rivisitazione potrebbe essere comunque difficile da realizzare nel contesto del ventunesimo secolo. Esiste quindi un eventuale rischio di immobilismo da parte della presidenza Trump, ma questo non dovrebbe poi destare troppe preoccupazioni. Wait and see.
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