Black Lives Matter e le statue della discordia nel Regno Unito
Nel Regno Unito, erede malandato e perennemente nostalgico dell’Impero Britannico, le proteste anti-razziste che dall’America sono arrivate in tutto il mondo hanno toccato un nervo scoperto, scatenando una rabbia sociale repressa e riaprendo ferite profonde.
Le statue abbattute, rimosse o imbrattate hanno costretto il Paese a porsi domande scomode sulle sue responsabilità storiche, ma anche su quello che oggi si chiede a una democrazia: è sufficiente ammettere gli errori, e orrori, del passato nel celebrare la propria storia? O è meglio rimuovere simboli di un’eredità che non solo non rappresenta più la società, ma ne offende una parte? Si può guardare alle figure storiche attraverso la sensibilità moderna?
Rabbia nelle strade
Domande un tempo relegate nei dibattiti accademici, che oggi fanno irruzione nelle strade. La rimozione violenta, tra una folla esultante, della statua di Edward Colston, schiavista onorato a Bristol in quanto benefattore della città, ha lasciato un impatto profondo in un Paese non certo abituato a queste scene.
Sadiq Khan, il sindaco di Londra, ha ordinato una revisione dei monumenti della capitale; gli studenti di Oxford sono tornati a chiedere la rimozione della statua di Cecil Rhodes, figura centrale del colonialismo in Africa; nel Dorset la statua di Robert Baden-Powell, fondatore dei Boy Scouts accusato di simpatie naziste, è sorvegliata 24 ore su 24. Quella di Winston Churchill, già imbrattata con la scritta “era razzista”, è finita inscatolata per evitare che diventasse nuovamente bersaglio della furia iconoclasta. Nel weekend appena trascorso, manifestanti di estrema destra e attivisti di Black Lives Matter sono scesi in piazza nel centro di Londra, un imponente schieramento di polizia a tenerli lontani. “Il simbolo di una Gran Bretagna spaccata”, ha scritto il Sunday Times.
E non sono solo i monumenti ad essere presi di mira: dalle serie Tv, rimosse per aver usato vecchi stereotipi razzisti contro i neri, ai nomi delle strade imbrattati (come Penny Lane a Liverpool, immortalata dai Beatles ma, forse, intitolata ad un mercante di schiavi), la storia e la cultura britanniche sono finite sotto la lente di ingrandimento.
Terreno fertile
Le proteste in seguito all’uccisione di George Floyd hanno trovato terreno fertile in un Paese che si è dovuto confrontare con casi anche recenti di discriminazione. Nel 2018, lo scandalo Windrush ha rivelato come centinaia di immigrati giunti dai Caraibi dopo la Seconda Guerra Mondiale, e dunque residenti nel Paese da decenni, fossero stati minacciati di deportazione, e in alcuni casi deportati. Prima di allora era stata la volta della politica dell’ambiente ostile, ideata da Theresa May (quando era a capo dell’Home Office) per frenare l’immigrazione. Anche la tragedia di Grenfell – la maggior parte delle 72 vittime dell’incendio del 2017 proveniva da minoranze etniche – è diventata un simbolo della disparità sociale tra bianchi e neri.
Più recentemente, il coronavirus ha cristallizzato il senso d’ingiustizia a scapito delle minoranze. Un rapporto delle autorità sanitarie ha dimostrato come le persone provenienti da minoranze etniche abbiano il doppio delle possibilità di morire di Covid-19 rispetto ai britannici bianchi. Non è un caso che i manifestanti di Black Lives Matter abbiamo preso come uno dei simboli della protesta il volto di una donna, Belly Mujinga, morta di coronavirus dopo che un uomo apparentemente infetto le aveva sputato addosso in una stazione di Londra.
Secondo dati riferiti in Parlamento, i neri hanno 47 volte più probabilità di essere fermati dalla polizia per un controllo, in assenza di motivi specifici, rispetto ai bianchi. Una statistica che arriva a quasi trent’anni dalla morte di Stephen Lawrence, un ragazzo nero di 18 anni accoltellato alla fermata dell’autobus tra insulti razzisti. L’indagine della polizia sull’omicidio, diventato uno dei casi più tristemente celebri del Paese, fu viziata da incompetenza, negligenza e pregiudizi. E da quello che una successiva commissione d’inchiesta bollò come “razzismo istituzionale” a Scotland Yard.
I rischi per Johnson
Per Boris Johnson, che nel passato si è dovuto scusare per aver usato epiteti razzisti contro le persone di colore, le proteste rappresentano un ulteriore banco prova in un anno assai diverso da quello che il premier si attendeva: doveva essere dominato dalla Brexit, verrà ricordato per la pandemia, la crisi economica e, ora, le proteste di Black Lives Matter. Un terreno scomodo per qualunque leader, tanto più per chi fa dell’ottimismo e dell’orgoglio patriottico la propria cifra politica. Il premier ha oscillato tra una tiepida comprensione per “il legittimo desiderio di manifestare contro le discriminazioni” e la condanna per gli atti di “teppismo” contro le statue. In particolare contro quella di Churchill, del quale si considera l’erede politico. “Non possiamo modificare o censurare il nostro passato”, ha detto.
Le proteste contro i simboli del passato, e contro un senso di ingiustizia che tanti ancora avvertono nella società, acuiscono le tensioni sociali in un momento già drammatico. L’emergenza sanitaria ha visto un numero di morti tra i più alti del mondo ed errori di cui il governo dovrà prima o poi rispondere. La crisi economica in atto potrebbe rivelarsi la peggiore da 300 anni. Ad aprile il prodotto interno lordo è crollato del 20,4% rispetto al mese precedente, la più grande contrazione mensile mai registrata. E secondo l’Ocse, il Regno Unito sarà, tra i Paesi sviluppati, il più colpito dal crollo dell’economia post-pandemia.
Una combinazione ad alto rischio, destinata ad aumentare il senso di scontento che circola nel Paese e i problemi di un governo già in calo di popolarità.