La “non-strategia” dell’Unione europea nell’Indo-Pacifico
Il 19 aprile il Consiglio dell’Unione europea ha approvato le conclusioni su una strategia dell’Ue per la cooperazione nella regione dell’Indo-Pacifico, una regione che si estende dalla costa orientale dell’Africa agli Stati insulari del Pacifico. L’Ue intende rafforzare la sua presenza politica, economica e militare in una macro-area geografica che produce circa il 62% del Pil mondiale − contribuendo per due terzi alla crescita dell’economia globale −, ma che è al contempo teatro di “un’intensa concorrenza geopolitica” tra Cina e Stati Uniti, di “crescenti tensioni negli scambi commerciali e di approvvigionamento” e “[della] messa in discussione dell’universalità dei diritti umani”.
Come ha enfatizzato ieri, nel corso di un incontro, il direttore generale per l’Asia ed il Pacifico del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Gunnar Wiegand, questa è una “strategia per accrescere la cooperazione, non il confronto”. Sulla base dell’iniziativa del Consiglio, la Commissione e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Josep Borrell dovranno presentare entro settembre una comunicazione congiunta che definisca una più sistematica e concreta cornice strategica entro le linee guida del Consiglio.
L’importanza della macro-regione
Ma cosa è l’Indo-Pacifico e perché se ne sente parlare soprattutto da quattro anni a questa parte? La macro-regione è un costrutto politico che nasce in Giappone, già con l’Arco della Pace e della Prosperità della prima amministrazione di Abe Shinzō (2006-07), per contenere e diluire l’ascesa cinese. Coerentemente con la visione dei fidati consiglieri di politica estera, il secondo premierato Abe (2012-20) promuove una visione strategica simile, stavolta a favore di un “Indo-Pacifico Libero e Aperto”. L’obiettivo primario è immutato e più urgente: arrestare l’accresciuta proiezione politica, (para)militare e – soprattutto − economica cinese negli Oceani Indiano e Pacifico e far richiamo più esplicito al diritto internazionale, ai valori universali e alla risoluzione pacifica delle dispute.
Eppure, il cosiddetto Indo-Pacifico diventa di uso comune solo dopo l’appropriazione dello stesso concetto da altri governi. Ciò dipende sicuramente da una maggiore assertività cinese e dall’acuirsi delle tensioni sino-americane, ma la diffusione di questo concetto eminentemente politico è stata resa possibile anche attraverso il sapiente operato della diplomazia giapponese. L’Australia, l’India, gli Stati Uniti − che per la prima volta nella storia han fatto proprio un’iniziativa di politica estera e di sicurezza nell’area del Pacifico di un Paese alleato – Francia, Asean, quindi Germania, Paesi Bassi e Regno Unito hanno inaugurato in questi anni le loro strategie o linee guida per l’Indo-Pacifico. Da ultimo, arriva l’Unione europea.
Le visioni sul cosiddetto Indo-Pacifico variano a seconda degli interessi dei suddetti attori, e, col tempo, a seconda dei mutati equilibri politici interni ed internazionali. Il governo di Tokyo stesso ha dapprima venduto la propria strategia per un Indo-Pacifico Libero ed Aperto all’amministrazione Trump, perché questa si facesse carico del contenimento cinese, per poi ammorbidire i contorni della propria “visione” strategica in funzione più costruttiva ed inclusiva perché venisse adottata da Paesi terzi e dare al Giappone maggiore flessibilità nei rapporti con Pechino. L’intento rimane comunque quello di negare alla Cina una sfera d’influenza regionale e di fornire alternative all’egemonia cinese, anche in coordinamento con l’alleato e i principali partner strategici, in primis i Paesi membri del Quad (Australia, Giappone, India e Usa), “il centro dell’Indo-Pacifico Libero e Aperto”, a detta di uno dei principali strateghi dei governi Abe.

La visione dell’Europa
Questa breve panoramica sulla genesi e le vicissitudini del concetto di Indo-Pacifico − dal punto di vista del Paese che ne è stato fautore e principale, silenzioso promotore – ne lascia intendere gli aspetti (o i vizi, se vogliamo) eminentemente politici. Proprio come la Belt and Road Initiative cinese, l’Indo-Pacifico è un test di Rorschach che si carica di significati in funzione delle aspettative e degli interessi del Paese di riferimento in un dato contesto storico-politico.
Se è vero che i termini delle conclusioni sono inclusivi ed aperti alla Cina, la strategia si propone di approfondire l’approccio nella regione, soprattutto con Paesi che si sono già dotati di approcci Indo-Pacifici. Non è un caso che le strategie di Francia, Germania e Paesi Bassi poggiano su una visione aperta e inclusiva della regione e omettono riferimenti espliciti all’Indo-Pacifico Libero e Aperto. L’enfasi statunitense sul decoupling, il confronto strategico a tutto campo, per non parlare dell’ingaggio in una guerra politica attraverso pressioni asimmetriche nei confronti della Cina – una linea divenuta particolarmente evidente nell’ultimo anno dell’amministrazione Trump − è stata vista con timore dagli alleati europei. Ravvedendo una continuazione, seppur sfumata, della competizione strategica tra Cina e Stati Uniti, le conclusioni del Consiglio dell’Ue enfatizzano l’elemento cooperativo già dal titolo.
Ciò detto, non dovrebbe sorprendere che una “strategia” approvata e promossa dal Consiglio dell’Unione europea, l’organo centrale nella politica estera e di sicurezza della Ue, debba riflettere quindi l’opinione “indo-pacifica” di ben 27 Stati membri. Molti degli Stati membri non hanno gli strumenti per una proiezione nei mari dell’Indo-Pacifico, per non parlare di reali interessi strategici nella macro-regione. Non sorprenderà quindi che la cornice di riferimento del Consiglio si avvicini − con le sue nove lunghe pagine – ad una lasagna piuttosto che ad un documento programmatico. Il documento si presenta come un affastellamento di temi e aree geografiche senza una definizione delle aree geografiche principali, degli obiettivi chiave, per non parlare degli strumenti e delle capacità da sfruttare per il perseguimento di tali obiettivi. Manca, insomma, una strategia.
I lettori possono far riferimento alle numerose analisi sulle diverse aree di cooperazione che la “strategia” si ripromette: dal mantenimento del libero commercio internazionale, all’esportazione del potere normativo della Ue e di merci e servizi di Stati membri, dal sostegno a favore di beni pubblici globali quali lo sviluppo sostenibile alla lotta al riscaldamento globale, sino ai contributi nel campo della sicurezza e della difesa, alcuni dei quali indirizzati –in maniera sottaciuta—alla Cina e al timore che si passi da un ordine internazionale basato sulla legge internazionale alla legge del più forte. Il punto centrale dell’operato della Ue nell’Indo-Pacifico rimane la volontà di preservare un ordine multilaterale, definito nel senso il più ampio possibile, e al contempo tutelando gli interessi e i valori della Ue.
I dubbi sul documento europeo
Manca una chiara priorità assegnata alle aree geografiche e ai diversi temi. Se si ravvede un’enfasi sull’Asean e sulle diverse organizzazioni regionali –del resto questa è una strategia regionale piuttosto che specifica ad alcuni Paesi− non si capisce quale sia il centro dell’Indo-Pacifico. Del resto, gran parte della vitalità economica soprammenzionata risiede in Asia, perché non renderlo esplicito? Perché ci sono interessi diversi tra Paesi membri della Ue ?
Al contempo, la mancanza di definizione di priorità in ambito tematico può suggerire flessibilità e una linea pragmatica, ma alcune delle aree di cooperazione e ingaggio son potenzialmente in tensione. Ad esempio, vengono prima gli interessi (economici, politici, di sicurezza) o i diritti umani? Viene prima la cooperazione con Paesi che si son dotati di una politica Indo-Pacifica, anche in funzione di un ingaggio con la Cina da una posizione di forza, o viene prima una “terza via” europea che si preoccupa di scongiurare gli effetti deleteri della competizione strategica sino-americana?
Infine, siamo solo interessati ad un multilateralismo il più largo possibile o possiamo esplorare ipotesi di collaborazioni mini-laterali che stanno acquisendo corso su base ad hoc (vedasi la Quad, il cosiddetto D10 e le sanzioni congiunte tra Usa, Canada, Regno Unito e Ue sullo Xinjiang)? C’è da sperare, insomma, che la Commissione “geopolitica” e l’Alto Rappresentante Borrell, stilino per settembre una comunicazione congiunta non solo più concreta, ma strategica nel vero senso della parola.
Foto di copertina EPA/US NAVY/LT. AARON B. HICKS