Afghanistan: il Grande Gioco ritorna alla casella di partenza
“Nulla sarà più come prima”: il mantra che diffonde un alone di speranza intorno ai grandi drammi, l’11 settembre, la crisi economica, la pandemia, trova l’ennesima clamorosa smentita poco prima del ventesimo anniversario dell’attacco all’America condotto dai terroristi di al Qaida. Vent’anni dopo, l’Afghanistan si ritrova alla casella di partenza, con i talebani al potere – le novità sono Ray-Ban e social, oltre ad armi più letali; le costanti sono la sharia e le barbe – e decine di migliaia d’afghani impegnati a eliminare i loro profili dalle piattaforme digitali, per allontanare da sé i sospetti di collaborazione con gli invasori e cancellare le prove di condiscendenze occidentali.
Per i media Usa, è l’ora degli esami di coscienza: sul Washington Post, Ishaan Tharoor osserva che la crisi afghana “mette in rilievo il mutare del ruolo – e pure del peso, ndr – degli Usa nel mondo”; sul New York Times, Frank Bruni denuncia la “perdurante arroganza” della politica internazionale degli Stati Uniti. La stampa liberal è dura con l’Amministrazione Biden: non si contesta la decisione di ritirarsi dall’Afghanistan, ma come essa è stata realizzata – una rotta, non un’uscita di scena sicura per sé e per i propri alleati e ordinata -.
“Gli Usa – scrive Fawaz A. Gerges sulWashington Post – devono resistere alla tentazione di sparare prima e fare domande dopo … Questa è stata la ricetta per il disastro in Vietnam, Iraq, Afghanistan e non solo … I nostri leader devono liberarsi di un impulso crociato e di un complesso di superiorità morale negli affari internazionali che ha fatto più male che bene alla nazione” e che “ha alimentato il terrorismo che voleva distruggere”. La nuova priorità è “l’obbligo morale” nei confronti di rifugiati afghani, che l’Europa, in realtà, al di là delle parole, fatica a sentire e a tradurre in pratica: ancora una volta, è più facile alzare muri – lo fanno Turchia e Grecia -, pur avendo contribuito a distruggere i ponti dietro alla gente in fuga.
L’ombra del Vietnam
“Non è Saigon 1975”, afferma il segretario di Stato Usa Antony Blinken, nonostante le immagini dall’aeroporto di Kabul evochino l’ultimo drammatico atto della presenza degli Usa in Vietnam. Non è lo stesso, perché, sostiene Blinken, gli obiettivi dell’intervento in Afghanistan sono stati raggiunti, mentre quelli della guerra contro i vietcong non lo erano stati. Sarà. Ma l’impressione è che i talebani siano oggi i vincitori, così come lo furono allora i vietcong.
Invadendo l’Afghanistan e rovesciando il regime degli “studenti islamici”, gli Stati Uniti volevano distruggere i santuari di al Qaida e mettersi al riparo da ulteriori minacce. Questo obiettivo può considerarsi raggiunto, fatto salvo l’allarme per potenziali contraccolpi terroristici di quanto sta avvenendo e per eventuali tentazioni di qualche esaltato di celebrare l’imminente anniversario. Ma in fondo lo era già nel 2004, al più tardi il 2 maggio 2011, quando Osama bin Laden venne scovato ed ucciso ad Abbottabad, in Pakistan.
Il fatto è che quello non era l’unico obiettivo: c’era il calcolo di fare dell’Afghanistan un avamposto dell’Occidente, l’illusione di dargli una democrazia sostenibile. E, qui, il fallimento è stato totale. Noi ce ne andiamo, anzi scappiamo; e i talebani si riprendono il Paese, che è il loro, quasi senza colpo ferire: decine di migliaia cercano di sottrarsi alla sharia, milioni la considerano la loro legge.
La palla ai cinesi
Abbiamo scelto come interlocutori uomini inadeguati: passi Hamid Karzai, il primo presidente, uomo della Cia dotato di buon carisma e d’una fisicità ieratica; ma Ashraf Ghali, il “fuggitivo in capo”, era uno che – per vincerle – doveva truccare elezioni pur già addomesticate.
Era sbagliato andare in Afghanistan nel 2001? Forse. Ma era praticamente impensabile non farlo, nel clima di allora. Abbiamo sbagliato a restarci vent’anni? Certo, lo sapevamo tutti: Barack Obama fu eletto due volte promettendo il ritiro; Donald Trump fu eletto contestando a Obama di non averlo fatto e negoziò con i talebani senza coinvolgere il governo perché voleva “portare i ragazzi a casa” prima delle presidenziali 2020; Biden lo ha fatto, purtroppo male. Era il momento sbagliato per venire via? Non ci sarebbe mai stato un momento giusto: i militari, e pure i diplomatici e i politici, erano consci che il governo di Kabul, corrotto e inetto, impopolare e pusillanime, sarebbe crollato come un castello di carte.
Cinicamente, adesso non resta che aspettare che anche i cinesi, i vincitori del momento, al tavolo della geopolitica, si ritrovino vittime della maledizione afghana. che ha travolto l’uno dopo l’altro il Regno Unito, fittizia potenza coloniale per un secolo, poi l’Unione Sovietica, potenza occupante per un decennio, e infine gli Stati Uniti e tutto l’Occidente, presenze militari per vent’anni, ma incapaci di costruire una parvenza di democrazia sostenibile. Come molti altri Paesi, l’Afghanistan è più insofferente alle presenze straniere che alle proprie ineguaglianze, iniquità, contraddizioni, divisioni.
“The Great Game”
Certo, Pechino affronta il Grande Gioco consapevole degli errori altrui: tanto per cominciare, zero presenza militare; solo “assistenza” economica e commerciale e “consulenza” diplomatica. La Cina ha già dimostrato in Africa e altrove che la corruzione e gli autoritarismi dei regimi con cui lavora non sono un suo problema; e non è mai stata condiscendente con il terrorismo. “The Great Game” è il nome dato alla partita giocata sull’Afghanistan e i territori adiacenti dagli Imperi russo e britannico tra il XIX e il XX Secolo ed è poi stato utilizzato sia dopo l’occupazione sovietica che dopo l’invasione occidentale.
Quando l’Urss invase l’Afghanistan a fine 1979, lo eleggemmo nostra frontiera della libertà e dell’indipendenza nazionale. Cacciati i sovietici e cantata vittoria lì e nella Guerra Fredda, tornammo a disinteressarcene, fino all’11 settembre 2001 e nonostante i campanelli d’allarme – fragorosi e sanguinosi – nel 1998 di Nairobi e di Dar Es Salaam. Allora, vi scoprimmo i “santuari” dei terroristi di al Qaida, protetti dai talebani, che costringevano le donne a vivere in un medioevo d’ignoranza e sottomissione.
Adesso che ce ne siamo andati, ci facciamo un mito e un cruccio dell’emancipazione femminile degli ultimi vent’anni. Ma foto degli Anni Ottanta mostrano maestre in gonna e camicetta che insegnano a classi di bambine nel Paese occupato dall’Urss e “liberato” dai talebani, che allora chiamavamo mujaheddin, armati dagli Usa per cacciare i sovietici. E mai ci chiedemmo che fine abbiano fatto le maestre e le loro scolarette.