IAI
L’Iran e il nucleare

Perché il Machiavelli di Teheran vuole la bomba

23 Giu 2006 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Intervista a Trita Parsi a cura di Emiliano Alessandri, Washington DC

La questione iraniana è al centro del dibattito internazionale. Il pericolo che le diplomazie occidentali intendono scongiurare è che il regime presieduto dal leader fondamentalista Ahmadi Nejad si trasformi in potenza nucleare in violazione del Trattato di Non-proliferazione di cui l’Iran è parte. Poche settimane fa l’amministrazione Bush, che più volte si è espressa a favore di un cambio di regime, ha annunciato di essere disposta a riaprire il dialogo con l’Iran dopo quasi trent’anni di completa chiusura dei canali diplomatici tra i due paesi, a patto che Teheran interrompa le attività di arricchimento dell’uranio. Ne discutiamo con Trita Parsi, tra i massimi esperti di politica iraniana a Washington, dove sta attualmente conducendo una ricerca presso il Carnegie Endowment for International Peace.

L’incubo dell’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 di settembre è che qualche cellula terroristica entri in possesso di armi di distruzione di massa. In questo caso, si fa osservare, un’azione di deterrenza difficilmente potrebbe essere efficace. Ma perché preoccuparsi in un caso come quello dell’Iran, che è uno Stato di tipo tradizionale con una leadership ben consapevole che l’uso dell’arma atomica, ad esempio contro Israele, scatenerebbe una micidiale rappresaglia?

Non vi è dubbio che la deterrenza possa funzionare nei confronti del governo iraniano, nonostante Ahmadi Nejad agiti deliberatamente lo spettro di un regime pronto a compiere scelte irrazionali, e nonostante l’immagine abilmente costruita del “mullah folle”. Un regime come quello di Teheran, sprovvisto com’è di amici ed alleati internazionali e alle prese con una forte opposizione interna, non sarebbe mai stato capace di sopravvivere in Medio Oriente per 26 anni fino ad occupare la posizione di potere di cui ora gode se avesse perseguito strategie suicide.

Cosa accadrebbe però se il governo iraniano passasse poi la tecnologia nucleare ad altri soggetti ad esso legati?

È altamente improbabile che gli iraniani siano disposti a condividere la tecnologia o gli armamenti nucleari con i vari soggetti non-statali cui si appoggiano nella propria strategia internazionale. Innanzitutto, l’Iran possiede da tempo armi di distruzione di massa – in particolare testate biologiche e chimiche – ma fino ad ora si è astenuto dal dotare di questi armamenti i gruppi internazionali con cui ha relazioni più o meno strette. Anzi, un generale israeliano mi ha confidato che molte delle testate missilistiche lanciate dagli Hezbollah libanesi contro Israele contenevano materiale esplosivo che gli israeliani stessi avevano venduto agli iraniani negli anni ’70, a testimonianza del fatto che il regime di Teheran condivide con i gruppi ad esso collegati solo la componente più obsoleta del proprio arsenale. In secondo luogo, se Israele venisse attaccato con armi di distruzione di massa il regime iraniano sarebbe il sospettato numero uno e la rappresaglia sarebbe certa e immediata. Israele ha un arsenale che gli consente capacità di reazione anche a seguito di un attacco nucleare e potrebbe sferrare un contrattacco anche da basi situate fuori dai propri confini. I sottomarini Dolphin, ad esempio, si prestano facilmente al trasporto e al lancio di ordigni nucleari. Gli iraniani ne sono ben consapevoli.

Ma la ragione forse più decisiva per cui all’Iran non converrebbe condividere la propria tecnologia nucleare con i gruppi internazionali a cui si appoggia è che, se così facesse, questi soggetti cesserebbero di essere semplicemente degli agenti alle sue dipendenze. La natura della loro relazione con il regime iraniano cambierebbe in modo fondamentale a loro favore perché acquisirebbero maggiore autonomia e potere contrattuale. Ahmadinejad è troppo machiavellico per commettere un errore così grossolano.

Detto questo, guai a trascurare la questione della proliferazione nucleare, che è invece un rischio che bisogna affrontare con estrema serietà. Anche se lo spettro di una “mutua distruzione assicurata” funziona ancora come deterrente, non è di certo questa la situazione ideale per uno Stato che voglia sentirsi sicuro.

Se il problema non è la deterrenza, non crede dunque che la vera preoccupazione è che la politica del cambio di regime cara a Bush non potrebbe più essere perseguita nei confronti di un Iran potenza nucleare, e che questo inevitabilmente limiterebbe anche la ‘strategia trasformativa’ che il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha dichiarato di voler attuare in Medio Oriente?

L’Occidente si è finora rifiutato di concedere all’Iran un ruolo regionale commisurato al suo peso geopolitico. Questo rifiuto sarebbe più difficilmente sostenibile se il programma nucleare iraniano fosse portato avanti con successo. Per quanto riguarda la sicurezza del regime, è indubbio che un cambio di governo per intervento esterno diventerebbe molto più arduo da compiersi se l’Iran possedesse armi nucleari. Teheran guadagnerebbe un margine più ampio di immunità nei confronti di pressioni esterne, in particolare da parte degli Stati Uniti. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che negli ultimi vent’anni ben due potenze nucleari sono andate incontro a una crisi di regime politico, l’Unione Sovietica e il Sud Africa. Le armi nucleari non possono essere usate contro il proprio popolo. Quindi, se è vero che la tecnologia nucleare potrebbe fornire qualche assicurazione in più al regime di Teheran verso l’esterno, potrebbe ben poco nei confronti dell’insoddisfazione delle popolo iraniano.

Le recenti aperture da parte dell’amministrazione Bush sembrano smentire l’opinione, peraltro largamente diffusa, che dal settembre 2001 il governo americano abbia condotto una strategia non solo unilaterale, ma anche di totale intransigenza: gli avversari internazionali sono stati presentati come nemici assoluti con cui non si può scendere a compromessi. Stiamo ora assistendo a un ripensamento radicale della politica estera americana degli ultimi anni?

È prematuro stabilire con certezza se la decisione statunitense di perseguire la via diplomatica con Teheran rappresenti un’autentica inversione strategica o si tratti invece più semplicemente di una manovra tattica per convincere l’Unione Europea, la Russia e la Cina della necessità di nuove sanzioni. Molto dipenderà da cosa sarà concretamente incluso nel pacchetto negoziale. Anche se questa decisione non avesse portata strategica, essa è impegnativa, e non poco, per il governo americano, che potrebbe alla fine trovarsi costretto a tentare davvero la via della diplomazia. Tuttavia, la condizione posta dal governo americano per l’inizio del dialogo – vale a dire la sospensione del programma di arricchimento dell’uranio – fa sorgere dubbi sulle intenzioni di Washington. Sta già alimentando il sospetto che gli Stati Uniti sperino in realtà che l’Iran respinga l’offerta al mittente.

La strategia diplomatica di Francia, Germania e Gran Bretagna, la cosiddetta Ue-3, è stata finora fallimentare sia perché l’Unione Europea aveva poco da offrire in sede negoziale, sia perché gli Stati Uniti seguivano una strada diversa. A fronte delle aperture statunitensi, dovremmo ora nutrire una maggiore fiducia in una soluzione diplomatica della crisi irananiana?

Se gli Stati Uniti prenderanno parte ai negoziati, le chance di una soluzione pacifica esistono indubbiamente. Se i negoziati non partiranno nemmeno – a causa delle condizioni poste da Bush o per via della testardaggine di Ahmadinejad – allora, purtroppo, il rischio di un conflitto militare sarà reale.

L’esclusione dell’Italia dal tavolo negoziale dell’Ue-3 ha sollevato non pochi malumori nella classe politica italiana. L’Italia è dopo tutto il maggior partner commerciale europeo dell’Iran e ha tradizionalmente condotto una politica estera molto attenta ai rapporti con l’area mediorientale e mediterranea. Lei auspica un futuro coinvolgimento del governo italiano nei negoziati?

È un peccato che il governo italiano non abbia finora potuto giocare un ruolo negoziale di primo piano. L’Italia ha relazioni molto forti con l’Iran e al contempo è indubbiamente un alleato leale e fidato degli Stati Uniti. Inoltre, l’inclusione dell’Italia nei negoziati darebbe voce non solo a quei paesi dell’Ue che hanno forti legami commerciali con l’Iran, ma anche a quelle nazioni che hanno preoccupazioni e priorità strategiche non necessariamente coincidenti con quelli di Francia e Gran Bretagna. Tre anni di continui fallimenti dimostrano che l’allargamento dei negoziati è condizione necessaria per portare al tavolo non solo gli Stati Uniti e le potenze asiatiche, ma anche altri paesi europei.