IAI
Intervista a Mark Rodekohr

Un mercato più libero per le fonti di energia

19 Lug 2006 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Il prezzo del carburante è aumentato in modo preoccupante in tutto il mondo sviluppato. In Italia ha toccato il record di 1,4 euro al litro, ma anche negli Stati Uniti, dove il costo della benzina è tradizionalmente più basso, il prezzo al gallone sfiora e a volte sorpassa i 3 dollari. A Washington il dibattito energetico si va surriscaldando. L’aumento che pare inarrestabile del prezzo del petrolio e la crescente dipendenza dall’estero rendono il gigante economico americano sempre più vulnerabile a pressioni esterne proprio quando la guerra al terrorismo internazionale costringe l’Occidente a misurarsi nuovamente con le profonde tensioni politiche che caratterizzano l’area tradizionale di estrazione degli idrocarburi, il Medio Oriente e il Golfo Persico in particolare. Nel frattempo la crescita economica asiatica trainata dalla Cina accresce ogni giorno il fabbisogno energetico mondiale.

Ne discutiamo con Mark Rodekohr, dell’agenzia per l’Informazione Energetica del Dipartimento dell’Energia del governo americano, ed economista presso il Centro per gli Studi Internazionali e Strategici di Washington (Csis), dove conduce, insieme ad un team di esperti, un programma sull’energia.

Dott. Rodekohr, mentre negli Stati Uniti il mondo politico si divide su come affrontare il tema della “sicurezza energetica” e al Congresso impazza il dibattito sulle proposte di legge in merito, in Europa l’intera questione sembra catturare meno interesse. Come se lo spiega?

La ragione è forse più banale di quanto possa sembrare ed è legata ad un fatto storico: in Europa il livello di tassazione sul petrolio e suoi derivati è tradizionalmente molto alto. Questo ha per così dire assuefatto i consumatori ad aumenti anche significativi dei prezzi, come quelli della benzina ad esempio. Il petrolio è sempre stato considerato quasi come un bene di lusso. Le rendite dei governi sull’energia servirono a fare ripartire le economie europee dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale. Il prezzo generalmente alto della benzina ha fatto sì che gli europei si scandalizzino meno quando si verificano ulteriori rincari. Negli Stati Uniti la situazione è completamente diversa. Il petrolio è stato da sempre un bene di consumo diffuso e poco costoso. L’aumento dei prezzi graduale ma consistente degli ultimi anni è molto meno tollerato ed ha stimolato subito l’attenzione dei media. Gli uomini politici fanno a gara a soffiare sul fuoco.

Che negli Stati Uniti il petrolio sia una questione più “sensibile” di tante altre lo si evince dal fatto che, nonostante la quota del prodotto interno destinato alla sanità sia quasi due volte quella dell’energia, il dibattito pubblico di rado affronta il tema spinoso del perché i prezzi per le prestazioni sanitarie siano negli Stati Uniti molto più alti che in Europa. Sull’energia, e il petrolio in particolare, invece, gli americani hanno i nervi scoperti.

Vi è però forse una ragione più seria per cui il dibattito, anche in America, non è ancora decollato ed è che l’aumento dei prezzi non si è per il momento tradotto in contraccolpi particolarmente negativi sulla crescita economica.

Ecco, come se lo spiega questo fenomeno?

Molti osservatori ritengono che l’aumento dei prezzi sia dovuto ad una maggiore domanda, in particolare da parte della Cina. Ma la crescita cinese si accompagna ad una maggiore integrazione del mercato mondiale delle merci. Ciò ha fatto sì che l’aumento del costo del petrolio sia stato in parte compensato da maggiore efficienza. Il livello generale dei prezzi non ha subito grandi variazioni e non si sono pertanto avuti effetti recessivi significativi.

Ma questa spiegazione mi convince solo in parte. Certo la Cina gioca un ruolo importante nel mercato energetico mondiale. Ma le ragione dell’aumento del prezzo del petrolio sono a mio parere più tradizionali. Penso in particolare a certe rigidità in Medio Oriente dove i sauditi, ad esempio, si oppongono ad aumentare la loro capacità estrattiva. Alla Nigeria che per ovvi motivi è ora tagliata fuori dal mercato. Al Venezuela che ha fatto della politica energetica un cavallo di battaglia per l’orgoglio nazionale. Anche le tensioni con la Corea del Nord hanno concorso.

Vi sono poi ragioni legate alle dinamiche interne del mercato energetico. Troppo spesso vi sono strozzature nel settore della raffinazione. Negli Stati Uniti, per fare un esempio, il costo del diesel è stato negli ultimi anni più alto di quello della benzina, al contrario di ciò che accade in Europa. Questo si deve al fatto che le raffinerie sono così concentrate sulla benzina tradizionale che la domanda di diesel non ha incontrato l’offerta.

Il punto che mi preme sottolineare è che siamo certamente in presenza di fattori nuovi e di cambiamenti anche epocali, come l’emergere della Cina, ma il problema del mercato energetico è sempre lo stesso: c’è troppa poca concorrenza tra troppi pochi attori.

La questione vera, al di là del sensazionalismo mediatico, è costruire un mercato mondiale dell’energia con il numero più ampio possibile di operatori. Il più possibile diversificato ed aperto. È così che si può porre un freno all’aumento dei prezzi.

C’è da aggiungere che l’aumento di questi ultimi anni è stato meno dannoso dei precedenti. Le crisi degli anni ’70 e ‘80 furono innescate da eventi repentini, come le guerre arabo-israeliane o la questione iraniana. In questo caso, invece, i fattori dell’aumento sono stati più scaglionati nel tempo e i prezzi non sono pertanto schizzati in alto da un giorno all’altro. Bisogna anche sottolineare che istituzioni monetarie come la Fed e la Banca Centrale Europea si sono date molto da fare per calmierare i prezzi.

Non crede dunque che, al di là degli aspetti più strettamente economici, gli aspetti geopolitici della questione energetica siano sempre più centrali? In particolare ora che l’Occidente si trova ad affontare minacce come il terrorismo, la proliferazione nucleare e una crescente instabilita’ in Medioriente. In altre parole, non vi è più che mai bisogno di una strategia comune occidentale per l’energia?

Certo che gli aspetti geopolitici sono cruciali. Ma il rischio che vedo è duplice. Da un lato sia il governo americano sia quelli europei sono spesso catturati da questioni di breve periodo – gli europei ad esempio hanno toccato con mano cosa significa essere dipendenti dal gas naturale russo, ma hanno teso ad affrontare la questione come un incidente isolato. Dall’altro vengono agitati spettri come quello della Cina.

Il problema geopolitico vero nasce dal fatto che il mercato dell’energia è pieno di strozzature.A questo proposito, la base per una strategia comune occidentale dovrebbe svilupparsi a mio avviso lungo tre direttrici fondamentali:
1) Adoperarsi attivamente perché si diversifichino le fonti di approvvigionamento. La dipendenza da un paese solo o da un gruppo ristretto di produttori espone ad un rischio inaccettabile per una economia moderna.
2) Assicurarsi che queste fonti siano realmente disponibili. Questo aspetto ha una componente strategica evidente: i gasdotti devono essere protetti e l’accesso al Golfo Persico da parte occidentale deve essere assicurato.
3) Provare a ridurre il livello generale di dipendenza. Molto si può ancora fare sul lato della domanda energetica, cioè della riduzione dei consumi e sull’uso più efficiente delle risorse. È allarmante che si parli di strategia energetica quasi unicamente in riferimento al problema della produzione e distribuzione, ma quasi mai del consumo.

Resta il fatto che l’energia è così importante per un’economia sviluppata che tende ad essere trattata come politica nazionale in senso stretto. Vi è cioè poca disponibilità a contrattare la propria strategia con altri soggetti, anche all’interno dell’Occidente. Vi è poi una questione più generale, a mio avviso, e cioè che il Nord America e l’Europa, per quanto integrati, sono mercati distinti e, in quanto concorrenti, tendono a competere anche sull’energia.

Non ritiene tuttavia che siano venute maturando le condizioni per un discorso energetico comune? Almeno su grandi questioni, come i rapporti energetici tra Russia ed Occidente?

Che il G-8 di San Pietroburgo abbia messo la questione energetica in cima all’agenda è di per se un fatto incoraggiante. Il problema è tuttavia che vi è asimmetria di interessi geopolitici. L’Europa è molto più dipendente da fonti russe e confina con l’ex gigante sovietico. Questo fa sì che gli Stati Uniti possano permettersi una maggiore intransigenza e insistere che la Russia leghi la sua strategia economica ad un processo di riforma politica interna. L’Europa non è nelle condizioni di avanzare queste richieste con altrettanta perentorietà.

Ma anche qui una strategia comune si potrebbe trovare se le considerazioni geopolitiche tenessero nel debito conto i i principi economici.

Se l’interesse geopolitico dominante di Europa e Stati Uniti per quanto riguarda l’energia è un mercato aperto e plurale, la strategia comune nei confronti della Russia non può che essere quella di favorire la penetrazione di soggetti privati nel territorio russo. Tranne che negli Stati Uniti ed in Canada, il controllo dei governi sulle risorse del sottosuolo – si pensi all’Arabia Saudita – è generalmente molto stretto. Il fatto preoccupante è che il governo russo, a differenza di altri paesi, ha rafforzato il suo controllo negli ultimi tempi. Questa chiusura del mercato costituisce un pericolo per l’Occidente nel suo complesso.

Ma allora non sarebbe forse più lungimirante investire in modo massiccio su altre fonti di energia, come quelle rinnovabili, che sottrarrebbero al petrolio il ruolo dominante che ora detiene e liberalizzerebbero il mercato energetico?

Su questo punto tendo ad essere tradizionalista. Il petrolio si è trovato a dominare il mercato energetico mondiale non accidentalmente. Ha soppiantato il legno e il carbone perché ha delle caratteristiche che lo rendono molto più competitivo. Ha un elevato contenuto energetico per unità di volume e peso. Può essere facilmente immagazzinato. E, aspetto ancora più cruciale, può essere trasportato con relativa facilità in ogni angolo del mondo. Questo – si noti per inciso – è stato un volano per l’integrazione commerciale – perché le importazioni di petrolio vanno pagate con qualcosa.

Energie rinnovabili come il vento non sono generalmente trasportabili e svariati studi dimostrano che sono molto costose. Alcuni impianti possono paradossalmente aver più bisogno di energia convenzionale di quanta ne producano. Alcune campagne, poi, come quella del governatore dell’Iowa e candidato presidenziale per il partito democratico, Tom Vislack, a favore dell’etanolo prodotto dal granturco sono semplicemente ridicole. Se non fosse per i sussidi federali – il governo paga 50 cents su ogni gallone di etanolo – il mercato avrebbe già chiuso.

Prevedo che anche il petrolio sarà rimpiazzato. Ma non di certo nel futuro prossimo. Solo quando si troveranno fonti con simili caratteristiche un cambiamento radicale potrà verificarsi.

L’Italia è l’esempio perfetto di un paese esposto a rischi energetici: ha una forte dipendenza da fonti estere ed in particolare da regioni ad alto tasso di instabilità politica; non persegue se non in modo molto limitato una politica di differenziazione, fa uso ridotto di energie alternative agli idrocarburi e, sebbene abbia scartato per volontà popolare l’opzione nucleare, non è al riparo da eventuali catastrofi per la presenza dei reattori francesi a poca distanza dai confini. Nel caso italiano quali consigli si sentirebbe di dare?

La Francia con il nucleare ha raggiunto ampi margini di autonomia e l’energia nucleare potrebbe davvero diventare la soluzione a molti dei problemi energetici del mondo sviluppato. Ma, come è evidente, a livello politico mancano le condizioni. Specialmente ora che l’Occidente agita lo spettro del nucleare come tecnologia facilmente trasferibile all’impiego militare.

Consiglierei dunque una strategia molto più attenta alla riduzione dei consumi, che fissi cioè più alti standard di efficienza nell’uso delle risorse energetiche, a cominciare dal settore dei trasporti. Il secondo passo dovrebbe consistere nel diversificare le fonti di approvvigionamento. Il terzo sta nell’unirsi al resto dell’Occidente per promuovere, attraverso l’Agenzia per l’Energia Internazionale (Iea), l’accesso delle compagnie occidentali alle risorse energetiche di ogni area del mondo. In particolare alla regione del Golfo.

Il richiamo di Bush all’America ‘drogata di petrolio’ coglie un problema reale così come fondata è la preoccupazione per l’impatto della crescita dell’Asia sul mercato mondiale dell’energia. Ma la soluzione non è la tanto acclamata quanto utopica “indipendenza energetica”. Ribadisco, la migliore geopolitica energetica consiste nel aprire i mercati e diversificare le fonti. Questo è davvero nell’interesse di ogni paese.