Verso una politica estera bipartisan?
La pesante sconfitta del Partito Repubblicano del presidente George W. Bush nelle elezioni di medio termine del novembre scorso ha ravvivato negli Stati Uniti un dibattito che in realtà non si era mai chiuso dagli attacchi terroristici del 2001 in poi: come ripensare la sicurezza nazionale americana per il XXI secolo. Tra le proposte più interessanti va segnalata quella del Princeton Project on National Security (Ppns) della Woodrow Wilson School dell’Università di Princeton.
Il rapporto conclusivo, di oltre sessanta pagine, che l’avveduto gruppo di specialisti di Princeton ha pubblicato proprio nel pieno della scorsa campagna elettorale è ora oggetto di vivace dibattito sui mass media d’America e non solo. Proprio di recente, due autorevoli organi della carta stampata di orientamenti politici non necessariamente convergenti, come l’inglese “The Guardian” e il statunitense “The Washington Post”, hanno entrambi suggerito che il rapporto del Ppns potrebbe rappresentare la piattaforma programmatica per una nuova politica estera americana dopo la fine dell’era Bush. Cerchiamo di capirne il perché.
Una questione di sintesi e approccio
Una prima ragione va individuata nel metodo seguito dall’ideatrice dell’iniziativa, la specialista di diritto internazionale e preside della Woodrow Wilson School, Anne-Marie Slaughter. Il progetto, lanciato nel 2004, è stato fin dalle origini concepito come uno sforzo collettivo in nome di una riflessione bipartisan sulla strategia internazionale degli Stati Uniti. Provengono infatti da diversi settori e da diverse tradizioni politiche le decine di collaboratori che hanno contribuito al progetto nei due anni del suo svolgimento.
Il rapporto conclusivo del Ppns è stato emblematicamente presentato come un articolo collettivo, poiché ispirato alla celebre sintesi strategica che lo storico statista americano della Guerra Fredda, George Kennan, pubblicò sotto pseudonimo sulle pagine di Foreign Affaire nel 1947 e in cui per la prima volta furono illustrate, in maniera sistematica e comprensibile al grande pubblico, le ragioni strategiche e le motivazioni ideali per una politica di contenimento dell’Unione Sovietica.
Agli occhi dei promotori del Ppns, la situazione internazionale del 2004 è apparsa non meno drammatica di quella dell’immediato dopoguerra. La “Strategia Nazionale” presentata dall’amministrazione Bush nel settembre 2002 aveva già suscitato nel paese e nel mondo accese polemiche per alcuni dei suoi contenuti, tra cui soprattutto la giustificazione della guerra preventiva a fronte di nuove minacce alla pace come il terrorismo internazionale. Per quanto criticato, il controverso documento strategico del 2002 invitava il popolo americano a prendere atto non solo della fine del bipolarismo ma anche della complessa fase di transizione degli anni ‘90, caratterizzata in America da facili trionfalismi come anche da una crescente incertezza, che gli attentati del 2001 parvero voler chiudere in modo al contempo brusco e drammatico.
Il gruppo di Princeton ha visto nella Strategia Nazionale del 2002 non un punto di arrivo ma di partenza. L’idea è stata di produrre una sintesi strategica più elevata di quella esistente e una delle precondizioni è stata vista nel coinvolgimento di culture politiche diverse – proprio come accadde nel secondo dopoguerra, quando l’amministrazione Truman cercò un consenso bipartisan almeno sulle principali decisioni di politica internazionale.
In questo senso, il progetto è stato oltremodo preveggente: la recente sconfitta di Bush ha evidenziato una profonda insoddisfazione tra gli americani circa il modo partigiano e confuso in cui gli Stati Uniti hanno inteso promuovere il proprio interesse nel mondo, dopo essere stati così gravemente attaccati nel 2001. La sintesi strategica del Ppns pare entrare nel cuore del problema offrendo un’alternativa bipartisan all’infelice politica estera americana degli ultimi anni.
Un nuovo asse politico?
Una seconda ragione che motiva l’interesse per l’iniziativa riguarda, ovviamente, i suoi contenuti. L’originalità del rapporto si deve in particolare a un aspetto: il tentativo di conciliare alcuni dei principi cardine della politica estera dei neoconservatori con un recupero della tradizione “liberal” americana, con la sua enfasi posta sulla valorizzazione delle istituzioni multilaterali e del diritto internazionale. Non è un caso che il rapporto del Ppns sia intitolato “Forging a World of Liberty Under Law” e che l’ideale così caro ai neoconservatori dell’esportazione della democrazia sia qui riproposto, ma come un obiettivo di lungo termine e in ogni caso indissociabile dalla contemporanea promozione di un “ordine internazionale” in cui le regole internazionali siano rispettate.
Questa associazione, a dire il vero per niente nuova nella tradizione strategica del paese, tra libertà e diritto – tra “liberty” and “law” – si deve soprattutto all’interessante collaborazione tra due analisti politici di rispettata fama internazionale, ma di cultura politica diversa come G. John Ikenberry e Francis Fukuyama. Lo scienziato politico di Princeton, noto per la sua strenua difesa del carattere “liberale” dell’egemonia americana e distintosi negli ultimi anni per una dura critica alla strategia di Bush che non ha esitato a definire “imperiale”, ha infatti deliberatamente cercato un confronto con il collega e cordiale amico, Francis Fukuyama, l’autore del celebre “La fine della storia”, che fino di recente non aveva fatto mistero delle sue simpatie neoconservatrici, salvo poi chiamarsi fuori dopo i primi fallimenti della politica estera di Bush.
Altre mediazioni di rilievo tra orientamenti politici diversi riguardano inoltre questioni di grande attualità come il futuro dell’Onu, delle relazioni transatlantiche e la dottrina della guerra preventiva.
La centralità dell’Onu
Il rapporto del Ppns non lascia spazio a equivoci nel riaffermare la centralità del sistema delle Nazioni Unite. Al contempo, tuttavia, raccoglie un malcontento diffuso tra le élite politiche del paese, in particolare nel fronte conservatore, nel ribadire la necessità di una riforma radicale dell’Onu. Tra le proposte principali vi si trova l’assegnazione di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, ma senza diritto di veto, a paesi come l’India, il Giappone, il Brasile e la Germania, nonché a due stati africani. Secondo il rapporto, inoltre, il controverso diritto di veto dovrebbe essere abolito quando in ballo vi è l’autorizzazione di azioni, anche militari, in diretta risposta a una crisi internazionale. Altro punto centrale è la “responsability to protect”, un concetto di cui l’uscente Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan, è il principale ispiratore e che si traduce in un dovere da parte della comunità internazionale di intervenire negli affari interni di uno stato sovrano, se questo non provvede autonomamente alla protezione dei suoi cittadini in caso di catastrofi umanitarie o ambientali.
Questa riaffermazione delle prerogative dell’Onu non va confusa, tuttavia, con un universalismo a ogni costo o con una difesa di principio del diritto internazionale vigente. Al contrario, il rapporto suggerisce che nel caso non troppo ipotetico di un fallimento della riforma delle Nazioni Unite, le democrazie del sistema internazionale sarebbero autorizzate a creare un forum alternativo con il potere di autorizzare un’ampia gamma di misure per la risoluzione delle crisi internazionali, incluso il ricorso all’uso della forza.
L’istituzione di un “concerto delle democrazie” sulle basi di un vero e proprio trattato internazionale costituisce, infatti, l’elemento forse più innovativo e potenzialmente controverso della proposta del PPNS. Se lo scopo dichiarato è quello di favorire la cooperazione tra le democrazie anche in funzione di una rivitalizzazione dell’Onu, è lecito sospettare che in pratica questo strumento potrebbe tradursi nella creazione di un sistema alternativo alle Nazioni Unite. Un altro rischio, inoltre, è quello di una marginalizzazione del ruolo di altre organizzazioni internazionali che si vantano di avere fatto del principio democratico un criterio di appartenenza, e su tutte la Nato.
I rapporti transatlantici in una cornice globale
Se le raccomandazioni del rapporto si pongono, infatti, nello spirito di una riconciliazione tra Europa e Stati Uniti, dopo gli aspri dissensi emersi in occasione dell’intervento militare in Iraq del 2003, questa rinnovata intesa sembra essere rientrare in una riconsiderazione complessiva degli equilibri strategici dell’attuale sistema internazionale dove è l’adesione ai valori della democrazia e del libero mercato, più che l’appartenenza alla comune casa dell’Occidente, a costituire il vero discrimine.
Il prezioso contributo della Nato alla difesa della sicurezza americana è ad esempio ribadito, ma anche in questo caso viene sottolineata l’urgenza di una riforma profonda dell’organizzazione, tale da rendere l’Alleanza Atlantica uno strumento più flessibile e soprattutto sempre più aperto a partenariati con paesi, come Israele, che condividono la tradizione politica dell’Occidente, ma che giacciono al di fuori dall’area euro-americana.
Considerate nel loro complesso, proposte come quella di un “concerto delle democrazie” così come quella di estendere le partnership della Nato a paesi non appartenenti all’area transatlantica, sembrano voler trovare un difficile compromesso tra l’unilateralismo di Bush delle cosiddette “coalizioni dei volenterosi” e un multilateralismo tradizionale tutto centrato sulle Nazioni Unite e sul diritto internazionale vigente.
La sintesi politica bipartisan che il gruppo di Princeton propone, in sostanza, rigetta le tentazioni unilateraliste dei neoconservatori, ma dissocia il multilateralismo dalla preservazione delle istituzioni multilaterali nella loro forma esistente. Inoltre, recupera l’idea centrale della tradizione politica statunitense, secondo cui l’esercizio del potere internazionale da parte dei suoi membri, e in particolare di quelli più potenti, deve essere disciplinato dal diritto internazionale, ma non identifica quest’ultima responsabilità con un’adesione incondizionata alla norme vigenti che invece invita a riconsiderare.
La guerra preventiva
Un ultimo aspetto degno di nota riguarda la dottrina della guerra preventiva. Anche qui la soluzione pare di compromesso. Da un lato, viene rifiutata l’idea che il ricorso a interventi militari preventivi possa equivalere a una vera e propria “dottrina” strategica. Dall’altro, tuttavia, si ammette che l’uso preventivo della forza contro il terrorismo “è uno strumento necessario” per fronteggiare con successo le nuove minacce alla pace mondiale. Ma forse ancora più controversa è la giustificazione dello stesso mezzo anche nei confronti di stati sovrani, in particolare se implicati in attività terroristiche o dotati di armi di distruzioni di massa. In questi casi, sostiene il rapporto del Ppns, il ricorso all’intervento militare preventivo non può essere scartato, anche se è da adottare solo in ultima istanza e in presenza di un’autorizzazione internazionale da parte dell’Onu o di altre organizzazioni multilaterali “ampiamente rappresentative”, come la Nato.
Reazioni disuguali
Nonostante un diffuso interesse per l’iniziativa, il rapporto del Ppns non è accolto con eguale favore dal mondo politico americano. Se, per certi aspetti, le raccomandazioni in esso contenute sembrano lanciare un primo ponte tra una certa ala del Partito Repubblicano e quello Democratico, i meno rappresentati dalle posizioni del rapporto sono forse proprio alcuni di quei leader conservatori che stanno tornando alla ribalta dopo la sconfitta elettorale dello scorso novembre. Opinioni come quelle dei realisti alla Kissinger, tradizionalmente diffidenti nei confronti di crociate in nome della libertà o della democrazia così come scettici sulla supposta efficacia e virtù delle istituzioni internazionali in genere, difficilmente trovano dimora nel nuovo edificio bipartisan di cui il gruppo di Princeton ha gettato le fondamenta.
Queste stesse opinioni trovano ora varco nel dibattito americano, perché si traducono nel caso scottante dell’Iraq nell’appello a un ritiro delle truppe nel nome di una politica estera meno idealista – e avventurista – e più attenta agli interessi strategici reali del paese. Una certa indulgenza all’idealismo, seppur qualificata, unita all’assenza di raccomandazioni nette e immediatamente applicabili su come uscire dall’impasse irachena rischiano di mettere il rapporto del Ppns in una situazione scomoda o privarlo di un sostegno che per altri aspetti si merita.
Non meno importante, ovviamente, è l’aspetto delle reazioni sull’altra sponda dell’Atlantico. Se è prevedibile che il proposito di per sé nobile di ricucire gli strappi tra Stati Uniti ed Europa venga accolto con favore, sarà certamente meno gradito agli europei sapere che il rapporto riserva all’Unione Europea un posto piuttosto marginale nel quadro della strategia internazionale americana. Altri motivi di dissenso potranno scaturire, inoltre, da una certa disinvoltura con cui il Ppns tratta questioni assai delicate come l’autorizzazione all’uso della forza, che il gruppo di Princeton suggerisce non essere di competenza esclusiva delle Nazioni Unite.
Insomma, il rapporto giunge molto atteso, ma suscita già una vivace polemica politica. In questo senso, pare avere già centrato l’obiettivo dichiarato dei suoi promotori: rinfrescare un dibattito che negli ultimi anni si era irrigidito lungo linee di contrapposizione piuttosto definite. La notizia che l’America abbia cominciato un serio riesame della sua strategia internazionale e che le carte si stiano rimescolando va accolta, in ogni caso, con soddisfazione.