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Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro

La Partnership for Peace: un cedimento o una mossa lungimirante?

11 Gen 2007 - Alessandro Spaventa - Alessandro Spaventa

Lo scorso 14 dicembre i presidenti di Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro hanno sottoscritto a Bruxelles il Framework Document per l’accesso al programma Nato Partnership for Peace. La firma dà seguito all’invito ai tre Paesi ad associarsi rivolto a conclusione del summit Nato lo scorso 29 novembre a Riga.

Reazioni contrastanti
L’invito, e la successiva firma a Bruxelles hanno suscitato reazioni contrastanti nell’ambito della comunità internazionale, soprattutto per quel che riguarda la Serbia. Da un lato vi è chi ha ritenuto l’accesso al programma Nato un cedimento rispetto alla politica di fermezza verso Serbia e Bosnia-Erzegovina nell’adempiere ad alcune condizioni minime per poter avviarsi sulla strada dell’integrazione europea, prima tra tutti quella della consegna dei criminali di guerra. Un esempio illuminante in tal senso è stata la reazione del procuratore del Tribunale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia, Carla Del Ponte, che ha severamente criticato la decisione Nato. Dall’altro vi è chi ha giudicato l’apertura venuta da Riga come un passo avanti verso la progressiva e necessaria integrazione di Serbia e Bosnia-Erzegovina nell’area euro-atlantica.

Le stesse posizioni d’altronde si erano fronteggiate anche all’interno del Dipartimento di Stato americano e tra i Paesi della Nato, con Italia, Spagna, Ungheria e Slovenia a perorare la causa dei tre Paesi dei Balcani, e Gran Bretagna, Olanda Francia e Germania che mantenevano un atteggiamento più cauto se non ostile alla proposta.

A tali posizioni in Serbia hanno fatto da contraltare posizioni speculari da parte dei leader serbi. Il premier nazionalista Voijslav Kostunica ha dato sostanza ai timori della Del Ponte, decidendo di interpretare l’accesso al programma Nato come una vittoria della Serbia, mentre il presidente Boris Tadic ha dichiarato che la Partnership for Peace rappresenta solo l’inizio di un percorso per compiere il quale la Serbia deve darsi da fare, a cominciare proprio dalla cattura e consegna dei criminali di guerra, primi fra tutti Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Dichiarazioni che riflettono gli schieramenti che si fronteggeranno nelle elezioni che si terranno il prossimo 21 gennaio.

La sfida dell’integrazione
Se i timori del procuratore Del Ponte, e di quanti con lei temono che qualsiasi allentamento della pressione sulla Serbia possano indebolire la posizione della comunità internazionale nei confronti del governo di Belgrado, non sono del tutto infondati, a ben vedere, tuttavia, l’accesso al programma Partnership for Peace rappresenta forse una mossa finalmente lungimirante, particolarmente dopo l’alt e il rinvio sine die imposto dall’Unione Europea al percorso di integrazione e in vista della definizione dello status del Kosovo.

La sfida nei confronti soprattutto di Serbia e Bosnia, infatti, è quella di favorirne l’integrazione nell’ambito euro-atlantico. Si tratta dell’unica via per stabilizzare definitivamente l’area, oggi ancora attraversata da forti tensioni. Ma è una sfida che va perseguita con decisione, facendo sì che le perverse logiche nazionaliste ancora forti in entrambi i Paesi, non vengano premiate, ma anzi ne venga sancito il definitivo superamento e la loro sconfitta. E soprattutto senza divisioni, così da non lasciare alcuno spazio alla tentazione serba di riprendere a giocare sui contrasti dei paesi occidentali come già fece per gran parte degli anni ‘90.

È in questo quadro che l’offerta e la conseguente adesione alla Partnership for Peace può giocare un ruolo positivo per “agganciare” la Serbia, stato chiave dell’area, favorire il processo di evoluzione democratica di tutti e tre i Paesi, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro, e promuovere la stabilizzazione dell’area.

Le implicazioni per Serbia e Bosnia-Erzegovina
Nata nel 1994 per integrare nell’orbita atlantica le repubbliche dell’Europa Orientale e quelle nate dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica, la Partnership for Peace è un programma di cooperazione bilaterale tra singoli Stati e la Nato. Il tipo e l’intensità della cooperazione vengono decisi dai Paesi partner in accordo con la stessa Nato. Vi sono tuttavia alcuni principi di base ai quali i Paesi che accedono al programma devono aderire e che si devono impegnare a perseguire. Tra di essi vi sono: l’impegno a preservare i principi basilari della democrazia, a rispettare le leggi internazionali, la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, a non aggredire altri stati, a rispettare i confini e a risolvere pacificamente le controversie internazionali.

Principi come si vede per nulla scontati quando si parla di Balcani. Ma oltre a tali impegni generici, ve ne sono alcuni più specifici che forse risultano ancora più interessanti nel caso di Serbia e Bosnia-Erzegovina: l’impegno a promuovere la trasparenza della politica e del bilancio della difesa e soprattutto il controllo democratico delle forze armate e a consultarsi con Paesi partner che sentano minacciata la loro integrità territoriale. Un meccanismo, quest’ultimo, utilizzato da Albania ed Ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia nel corso della crisi del Kosovo.

L’adesione alla Partnership for Peace implica, quindi, alcuni elementi che, soprattutto nel caso di Serbia e Bosnia-Erzegovina possono giocare un ruolo positivo nel processo di evoluzione democratica, di stabilizzazione e integrazione. In particolare l’accento posto sul controllo trasparente e democratico delle forze armate e sulla loro estraneità rispetto alla battaglia politica rappresenta un fattore rilevante sia in Serbia, dove l’intreccio tra potere politico e forze armate, e in casi non rari anche con la criminalità, rappresenta un nodo ancora da sciogliere, che in Bosnia, nella quale di fatto esistono due eserciti al servizio rispettivamente dei governi delle due entità che costituiscono lo stato bosniaco, la Repubblica Srpska e la Federazione croato-bosniaca.

Inoltre, l’impegno a rispettare i confini e a risolvere pacificamente ogni controversia, se non hanno alcun valore per quanto riguarda il Kosovo, che in base al diritto internazionale è parte integrante della Serbia, potrebbero avere un qualche ruolo nell’evenienza di una degenerazione della situazione in Bosnia-Erzegovina, a causa di pulsioni secessioniste della Repubblica Srpska.

Una Serbia più euro-atlantica
Infine, elemento non trascurabile, l’adesione alla Partnership for Peace avvicina la Serbia all’orbita euro-atlantica, indebolendo il legame storico con la Russia al quale ha periodicamente fatto ricorso il governo di Belgrado per contrastare le pressioni occidentali e bloccare progetti di risoluzioni ritenute ostili o lesive degli interessi nazionali in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E non è irrilevante ricordare che solo otto anni fa la Serbia veniva bombardata dagli aerei della stessa organizzazione alla quale oggi ha scelto di legarsi.

Naturalmente, nulla impedirebbe alla Serbia di porre fine alla Partnership for Peace, possibilità espressamente prevista dal programma Nato, e svincolarsi così da ogni impegno, così come non è detto che tutti gli impegni presi sulla carta trovino poi effettiva attuazione. Tuttavia, ciò implicherebbe una svolta radicale e quasi certamente la rinuncia ad ogni prospettiva di integrazione europea. Un prezzo che sarebbe troppo caro per i cittadini serbi e forse anche per i leader nazionalisti.

L’offerta fatta a Riga ha avuto il merito di “agganciare” Serbia e Bosnia-Erzegovina all’area euro-atlantica e di evitare che il loro perdurante isolamento e l’allontanarsi della prospettiva europea potessero contribuire al degenerarsi della situazione. Chiudere ogni spiraglio avrebbe voluto dire rischiare di fomentare pulsioni nazionaliste o rinunciatarie in un contesto nel quale il richiamo dell’Europa è debole e a prevalere è ancora una visione locale senza respiro internazionale. In tale contesto non è casuale che l’offerta sia stata fatta a meno di due mesi dalle elezioni in Serbia.

Tutto ciò attraverso uno strumento “leggero”, per quanto diplomaticamente significativo, e senza sostanziali concessioni sul piano politico. L’adesione, inoltre. non implica alcun annacquamento delle condizioni richieste dalla Ue per poter procedere sul cammino dell’integrazione europea, come ben sa la Turchia, che della Nato è non partner, ma membro e da lungo tempo.

In questa partita l’Italia ha giocato un ruolo di primo piano, forse anche oltre il necessario. Un ruolo che con la dovuta attenzione, e senza cedere ad eccessi di “amicizia”, potrà e dovrà continuare a giocare nel prossimo futuro per contribuire a stabilizzare un’area di interesse strategico per il nostro Paese.