Iran, perché Chirac ha torto
Recentemente il presidente francese Jacques Chirac si è lasciato sfuggire che “un Iran con una o due bombe nucleari non sarebbe un gran pericolo”, anche se poi ha ritrattato. È piuttosto diffusa in Europa l’opinione che un Iran nucleare non costituirebbe di per sé una minaccia grave o, perlomeno, che tale minaccia non sarebbe tanto grave da giustificare politiche che potrebbero essere destabilizzanti e portare, prima o poi, a uno scontro militare. Non si vede d’altronde perché, si argomenta, una strategia di dissuasione non dovrebbe funzionare con un Iran nucleare.
Chirac ha fatto riferimento a Israele, che, a suo parere, se fosse fatto oggetto di un attacco nucleare iraniano, sarebbe in grado, con le sue armi nucleari, di reagire “radendo al suolo” l’Iran. Insomma tra Iran e Israele si potrebbe stabilire un rapporto di mutua dissuasione simile a quello che sussiste attualmente tra Pakistan e India. A maggior ragione, gli Usa sarebbero in grado di impedire con la dissuasione un attacco nucleare iraniano contro un paese occidentale, un’ipotesi peraltro estremamente remota.
Il pericolo è reale
Questo ragionamento non tiene però sufficientemente conto della realtà regionale. L’Iran punta a rafforzare il suo potere e la sua influenza in Medio Oriente. Ritiene di averne anche la legittimazione ideologica. Ha cercato infatti di accreditarsi come il vero campione della causa palestinese e l’unico credibile baluardo contro la presenza militare americana. Il sostegno a gruppi come Hezbollah e Hamas rientra in questo disegno. Non lo si può definire un disegno espansionistico, visto che non punta ad annessioni territoriali. Ma certamente presenta almeno alcuni connotati tipici di un disegno egemonico, che preoccupa non poco i paesi limitrofi. Questi ultimi, per lo più arabi e sunniti, vi vedono il tentativo di spostare gli equilibri regionali a favore degli sciiti. Ma soprattutto molti regimi arabi e sunniti dell’area si sentono direttamente minacciati dalle politiche di Teheran di appoggio ai gruppi radicali.
I recenti interventi occidentali nell’area hanno indubbiamente avuto come effetto, fra gli altri, di accentuare queste rivalità regionali. Ma il problema delle mire egemoniche iraniane non è nuovo. Si è posto con il regime nato nel 1979, dato il suo carattere rivoluzionario e militante. Ma esisteva già prima, con lo Scià. Al di là delle caratteristiche peculiari dei vari regimi che si sono succeduti a Teheran, è un problema di rapporti di forza all’interno della regione. Un problema di lungo termine che va affrontato come tale.
Anche al di là delle intenzioni iraniane, l’arma nucleare in mano a Teheran sarebbe vista nella regione come suscettibile di essere usata a fini non tanto di deterrenza verso gli stati militarmente più forti (gli Usa o Israele), quanto di intimidazione o di coercizione verso quelli più deboli. Una corsa agli armamenti regionale – e non solo a quelli convenzionali – sarebbe difficilmente evitabile.
L’acquisizione di uno status nucleare da parte dell’Iran avrebbe inoltre un effetto destabilizzante anche a livello globale, poiché darebbe un colpo probabilmente mortale al regime di non proliferazione nucleare, già molto traballante (l’uscita della Corea del Nord lo ha indebolito non poco). Peraltro, fra i paesi che più lo contestano ci sono proprio quelli mediorientali, come l’Egitto, che, se i piani nucleari iraniani andassero avanti, si sentirebbero ulteriormente legittimati a rimetterlo in discussione (per ora la loro polemica si appunta soprattutto sul nucleare israeliano).
Per i paesi occidentali la salvaguardia del regime di non proliferazione nucleare è un obiettivo prioritario. L’Ue in particolare lo ha posto al centro della sua strategia di sicurezza. Per queste ragioni non ci si può rassegnare alla prospettiva di un Iran nucleare.
Rassicurazioni e sanzioni
Esiste certamente una dialettica all’interno della leadership iraniana in merito all’opportunità – o almeno ai tempi e ai modi – di perseguire il programma nucleare. Su queste divergenze si può far leva con una politica calibrata di incentivi e sanzioni. Al di là dell’offerta di incentivi – e il pacchetto messo insieme dall’Unione Europea ne contiene diversi – è importante, per le ragioni dette sopra, mandare almeno tre messaggi rassicuranti agli iraniani: che non si punta a un cambiamento del regime con la forza; che non si sta pianificando un intervento militare; che si è pronti a riconoscere all’Iran un ruolo di primo piano nella gestione degli affari regionali.
Le prime due rassicurazioni possono contribuire a rendere meno cogente la finalità difensiva, se così la si può definire, del programma nucleare; la terza a dare agli iraniani quel maggior ruolo e prestigio che stanno cercando di ottenere anche attraverso l’acquisizione di un arsenale nucleare. Anche gli americani hanno di recente fatto significativi passi avanti, benché ancora insufficienti, nel fornire queste rassicurazioni.
Sembra inoltre che le misure varate di recente contro l’Iran stiano avendo un qualche impatto. È quindi perlomeno prematuro decretare il fallimento della politica delle sanzioni, che ha peraltro l’avallo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, essendo sostenuta anche da Russia e Cina.
La prospettiva di un cambiamento di regime
Ma in che misura bisogna prendere in considerazione la possibilità di un cambiamento di leadership o di regime in Iran? Anche qui bisogna evitare due errori speculari. Il primo è quello che ha commesso fino a qualche tempo fa l’amministrazione Bush: escludere ogni contatto diplomatico e forma di collaborazione fino a quando non ci sia un cambiamento di regime. L’altro errore è di precludersi ogni tipo di pressione o misura sanzionatoria nei confronti dell’Iran nel timore che questo possa favorire i conservatori e impedire così un’evoluzione democratica o liberale all’interno. Entrambe queste linee tendono a portare alla paralisi dell’azione politica e diplomatica.
In Iran si possono effettivamente creare le condizioni per un cambiamento politico. Questa prospettiva deve essere quindi parte dell’equazione strategica. Occorre evitare, per quanto possibile, iniziative che possano essere sfruttate dall’attuale leadership contro i riformatori o contro l’opposizione emergente. Di qui la necessità innanzitutto di fornire le rassicurazioni di cui sopra e di mostrarsi seriamente disponibili al dialogo diplomatico. Ma anche di attenersi a un metodo flessibile e graduale nell’applicazione delle sanzioni.
Più spazio agli europei
Per il momento tutto indica che gli americani abbiano accantonato l’opzione militare e siano realmente disponibili sia ad aprire un dialogo con l’Iran sul futuro dell’Iraq – benché non a livello bilaterale, ma nell’ambito di riunioni internazionali – sia a sedersi al tavolo della trattativa sul programma nucleare se l’Iran accetterà di sospendere l’arricchimento dell’uranio (è questa, peraltro, la condizione posta anche dagli europei).
Il cambiamento di approccio a Washington non sembra effimero. Con l’uscita di scena di alcune figure chiave come Ronald Rumsfeld, e John Bolton e il parziale ridimensionamento di altre, come Dick Cheney, la linea favorevole a un rilancio dell’azione diplomatica ha guadagnato decisamente terreno. Negli Usa si è inoltre diffusa la convinzione che le sanzioni stiano avendo effetto. Il Congresso, da parte sua, non sembra disposto ad avallare alcun intervento militare contro l’Iran. Infine, l’opinione pubblica è stanca di avventure militari.
In questo contesto i paesi europei dovrebbero continuare a perseguire con coerenza la politica delle sanzioni graduali, ma senza escludere la possibilità di arrivare a un accordo che consenta di tornare a trattare, anche in assenza di una sospensione del programma di arricchimento, in cambio di una ripresa a pieno regime delle attività di controllo della Aiea. Indubbiamente un compromesso difficile da raggiungere e, forse non meno, da attuare. Ma se gli iraniani abbandonassero gli atteggiamenti gladiatori e si mostrassero disponibili al compromesso, varrebbe la pena tentare.
Gli europei hanno svolto un ruolo importante nel tenere insieme la coalizione internazionale. È questa una delle funzioni principali che possono svolgere sia sollecitando gli americani a una maggiore flessibilità, sia mostrandosi abbastanza fermi da mettere anche gli altri attori internazionali – a cominciare da russi e cinesi – di fronte alle loro responsabilità.