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Le primarie negli Usa

It’s foreign policy, stupid!

18 Dic 2007 - Ettore Greco - Ettore Greco

Nelle primarie americane la politica estera sta avendo un ruolo centrale. E lo avrà sicuramente anche nelle elezioni presidenziali del prossimo autunno. I dati indicano che molti americani guarderanno soprattutto ai programmi di politica estera quando dovranno scegliere il prossimo presidente. Il loro voto potrebbe peraltro rivelarsi decisivo, perché si tratta in gran parte di elettori incerti, quelli che non di rado fanno la differenza.

Rifiuto dell’isolazionismo
In verità, c’è un punto non irrilevante su cui i principali candidati, sia repubblicani che democratici, concordano: nonostante il fallimento della politica interventista di Bush e l’avversione crescente dell’opinione pubblica per impegni all’estero non dettati da minacce incombenti o da un chiaro interesse nazionale, nessuno propone un ritorno a politiche isolazioniste. Inoltre, tutti i candidati repubblicani hanno preso le distanze dagli eccessi “idealistici” dei neoconservatori, da quel “wilsonismo senza istituzioni” che, fatto proprio dall’attuale Amministrazione, è stato all’origine di una serie di errori a catena. Anche un candidato come l’ex-sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che per la politica estera si sta facendo consigliare da alcuni neoconservatori di provata fede, ha accuratamente evitato di riproporre obiettivi ormai ampiamente screditati come l’esportazione della democrazia o il “regime change”. Obiettivi peraltro che rimanevano ancora al centro della strategia di sicurezza nazionale pubblicata dall’Amministrazione nel 2006. Che oggi nessuno si periti di rilanciarli è una prova eloquente di quanto siano cambiati, almeno sotto questo rispetto, i termini del dibattito di politica estera.

Ma, a parte questa presa di distanza dagli aspetti più palesemente fallimentari delle teorie neoconservatrici, i candidati repubblicani – almeno quelli che hanno reali possibilità di vincere le primarie – hanno fatto propri, senza grandi modifiche, tutti i principali capisaldi della linea di politica estera di Bush. A partire dalla “guerra globale al terrorismo”: tutti si dichiarano convinti che l’attuale amministrazione abbia fatto bene ad abbandonare quella che Giuliani, in un articolo su Foreign Affairs, ha definito, con riferimento agli anni di Bill Clinton, “una dannosa strategia decennale di reazione difensiva”.

La scelta di portare la guerra nel campo del nemico, cioè in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq e domani forse Iran), rimane pertanto, secondo i candidati repubblicani, una scelta lungimirante, che va pienamente riconfermata. Nessun ritorno indietro, dunque, alla situazione precedente l’attacco del 2001 alle Torri gemelle e al Pentagono. “Apparteniamo tutti alla generazione dell’11 settembre” è l’incipit dell’articolo di Giuliani summenzionato. I candidati repubblicani continuano a riproporre, sulle orme di Bush, l’immagine di un’America minacciata da molte direzioni che, per proteggersi, non può far altro che rimanere all’offensiva. I sondaggi indicano peraltro che questa visione, pur avendo sempre meno credito tra gli elettori che si dichiarano indipendenti, continua ad essere condivisa dalla stragrande maggioranza di quelli repubblicani.

Specie in periodo di primarie, metterla in discussione è l’ultima cosa che i candidati repubblicani possono permettersi di fare, anche ammesso che nutrano qualche dubbio in proposito. Anzi, Giuliani e un altro candidato con chance di successo, l’ex-governatore del Massachusetts, Mitt Romney, sono tutt’altro che immuni dalle iperboli ideologiche. Entrambi parlano di lotta senza quartiere contro il “fascismo islamico” e i progetti di edificare un califfato jihadista, senza preoccuparsi di fare troppe distinzioni tra sunniti e sciiti o fra le varie forme di radicalismo islamico. Anche l’altro candidato di punta dei repubblicani, il senatore John McCain, che pure non ha avuto remore a criticare gli errori commessi da Bush nella gestione della guerra in Iraq, ne ha in realtà sempre difeso le scelte strategiche di fondo.

L’alternativa dei democratici
Il problema centrale per i democratici – per la Clinton, come per gli altri due candidati che sono in cima ai sondaggi, il senatore dell’Illinois Barak Obama e l’ex-senatore del North Carolina, John Edwards – è invece ristabilire la reputazione politica e morale dell’America nel mondo per poterne riaffermare la leadership globale. La Clinton ha fatto della “visione ciecamente ideologica del mondo” di Bush il suo obiettivo polemico privilegiato, accusando l’attuale presidente di aver messo gli americani di fronte a false scelte, come quella tra forza e diplomazia e, più in generale, tra hard e soft power, laddove, ha sostenuto, è solo la combinazione di questi elementi che può portare al successo.

Uno dei fondamentali temi di contrasto tra repubblicani e democratici è proprio il ruolo della diplomazia. I primi sono a dir poco riluttanti a dialogare con paesi come l’Iran e la Siria, per non parlare di Cuba, e insistono sulla necessità di porre precise condizioni prima dell’avvio di qualsivoglia negoziato. Per i secondi è invece fondamentale che sia rilanciata al più presto l’azione diplomatica degli Usa, specie in Medio Oriente. Obama è quello che si è spinto più in là, dicendosi pronto a colloquiare subito e “senza precondizioni” con i leader di Stati che hanno finora mostrato ostilità nei confronti degli Usa. La Clinton, scegliendo, come su altre questioni, una posizione intermedia ha avuto buon gioco ad accusarlo di ingenuità: incontri improvvisati con leader di paesi antagonisti, ha sottolineato, possono facilmente avere un effetto boomerang se non adeguatamente preparati.

Hillary Clinton è stata più cauta degli altri candidati democratici anche sulla “guerra al terrorismo”. Ha evitato di denunciarla come mero “slogan politico”, come invece ha fatto Edwards, che ha accusato Bush di essersene servito per giustificare qualsiasi cosa, da Guantanamo a Abu Ghraib, dallo spionaggio sui cittadini americani al ricorso alla tortura. La Clinton è stata d’altronde attentissima a non prestare il fianco a qualsivoglia accusa di non essere abbastanza dura verso il terrorismo. A parte ogni altra considerazione, dietro quest’atteggiamento c’è evidentemente un preciso calcolo politico: un eventuale nuovo attacco terroristico nei prossimi mesi o, peggio, in piena campagna elettorale metterebbe in gravi difficoltà i candidati che avessero mostrato di sottovalutare questo tipo di minaccia.

C’è piena concordia fra i democratici anche su un altro punto: la prima e fondamentale condizione per rilanciare la leadership americana nel mondo è uscire al più presto dal pantano iracheno. Così, mentre tutti i principali candidati repubblicani hanno sostenuto l’incremento di truppe deciso da Bush all’inizio del 2007 e sono per confermare, per ora senza scadenze, la presenza militare in Iraq, i democratici si sono sforzati di presentare piani, più o meno dettagliati, per il ritiro. Questi piani hanno molto in comune: prevedono che il nuovo presidente avvii il ritiro immediatamente dopo il suo insediamento – se non sarà stato fatto nel frattempo da Bush, il che appare altamente improbabile – , che sia completato in non meno di un anno e che comunque rimangano, sia nella regione che in Iraq, alcune truppe americane.

Quest’ultimo è chiaramente il punto più delicato. Tutti i principali candidati democratici hanno dichiarato di ritenere necessaria, anche una volta data esecuzione ai piani per il ritiro, una presenza militare americana per assolvere a una serie di missioni di non poco conto: dalla protezione del personale civile americano che resterà in Iraq, al controllo dei confini con i paesi limitrofi dalle operazioni antiterrorismo contro al-Qaeda, all’addestramento dell’esercito iracheno. Alcune di queste missioni possono teoricamente essere svolte fuori dall’Iraq o essere assegnate a unità militari che, in caso di necessità, interverrebbero dai paesi vicini – come, per esempio, una forza di azione rapida di stanza in Kuwait o in altro paese alleato del Golfo. Ma altri compiti non potrebbero che essere svolti all’interno dell’Iraq. Inoltre, per assolvere a queste missioni servirebbero migliaia di soldati. Secondo alcune stime, anzi, alcune decine di migliaia.

Insomma, anche se i candidati democratici hanno fatto del ritiro delle truppe dall’Iraq un cavallo di battaglia, dalle loro dichiarazioni si ricava che non immaginano un ritiro totale e, men che meno, un disimpegno dagli sforzi per stabilizzare il paese ed evitare che cada sotto l’influenza iraniana o si trasformi ancor di più in una zona franca per i terroristi di al-Qaeda.

La questione iraniana
Fino a un paio di mesi fa la questione dell’Iraq dominava totalmente il dibattito di politica estera. Ma negli ultimi tempi ha assunto un rilievo crescente il problema delle misure da adottare per bloccare il programma nucleare dell’Iran. L’ipotesi di un intervento militare contro Teheran è ormai diventato uno dei temi centrali della campagna elettorale. Questo parziale spostamento di attenzione è dovuto a un oggettivo aggravamento del problema: né gli sforzi diplomatici né le sanzioni decise dall’Onu hanno finora prodotto risultati, e l’Iran ha continuato a fare progressi nell’arricchimento dell’uranio, anche se non è chiaro di quali proporzioni. Ma anche l’amministrazione Bush ci ha messo del suo, usando toni sempre più allarmistici sulla minaccia iraniana, forse anche nell’intento di distrarre l’opinione pubblica dalla guerra in Iraq. È stata però clamorosamente smentita dall’ultima stima dei servizi di intelligence nazionali, che, ridimensionando di molto il rischio che Teheran si costruisca un arsenale nucleare nei prossimi anni, l’ha costretta, almeno per ora, sulla difensiva.

Anche sull’Iran le differenze tra i candidati dei due partiti sono molto marcate, ma ne sono emerse di significative anche tra i candidati democratici. Giuliani, McCain e Romney hanno fatto dichiarazioni molto bellicose. Il primo ha “promesso”, nel caso del fallimento di altre misure, di realizzare un’azione militare per impedire agli iraniani di sviluppare l’arma nucleare. Romney, dal canto suo, ha prospettato la possibilità di attaccare l’Iran anche senza l’autorizzazione del Congresso. Anche qui si è assistito, insomma, a un poco edificante gioco al rialzo. D’altra parte, tutti e tre i principali candidati democratici hanno affermato di non poter escludere, in linea di principio, nessuna opzione, incluso l’uso della forza. Ma si sono preoccupati di porre l’accento sulle iniziative da intraprendere a livello diplomatico.

Obama ed Edwards hanno promesso, in particolare, negoziati diretti con Teheran (finora solo gli europei si sono impegnati in colloqui formali con i dirigenti iraniani). Edwards ha prospettato la firma di un vero e proprio patto di non aggressione con l’Iran se quest’ultimo accettasse di rinunciare ai suoi piani nucleari. Più cauta è stata, anche su quest’argomento, Hillary Clinton: si è limitata a indicare che offrirebbe “un pacchetto ben calibrato di incentivi”. La Clinton è stata anche l’unica fra i candidati democratici a pronunciarsi senza equivoci per un inasprimento delle sanzioni contro Teheran. Mentre molti democratici vedono nell’imposizione di nuove sanzioni un preludio alla guerra, la Clinton l’ha presentata come un modo per tentare di prevenirla. Non solo: in Senato ha votato anche a favore di una risoluzione in cui si chiede di inserire il corpo delle guardie rivoluzionarie dell’Iran nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere.

In generale, la Clinton ha dimostrato di avere il coraggio, anche durante la campagna delle primarie, di assumere, su diversi temi di politica estera, posizioni più moderate e centriste di quelle prevalenti nella base democratica. Si è così costruita un capitale politico che, se vincesse le primarie, le frutterebbe sicuramente nella campagna presidenziale, quando conterà soprattutto la capacità di attrarre i voti degli elettori di centro. Inoltre, sapendo che nel campo repubblicano le primarie saranno vinte da un falco, la Clinton si preoccupa di non fare dichiarazioni o atti che possano successivamente esporla all’accusa di essere troppo morbida sulle questioni di sicurezza nazionale.

Scudo anti-missile e il ruolo delle istituzioni
Una delle bandiere dei candidati repubblicani è il progetto di difesa antimissile. Lo hanno presentato come necessario contro le minacce che potrebbero provenire non solo da paesi, come l’Iran, che si sospetta stiano cercando di costruirsi un proprio arsenale militare, ma anche da Russia e Cina. Sarebbe così possibile emanciparsi progressivamente dalla logica della dissuasione nucleare e dalla “distruzione reciproca assicurata” (mutual assured destruction) ereditata dalla Guerra Fredda. I principali candidati democratici hanno dichiarato di non considerare prioritario il progetto di difesa antimissile e vorrebbero ridurre i fondi ad esso dedicati, ma non ne hanno prospettato la cancellazione. La verità è che l’idea di una protezione permanente dalla minaccia nucleare rimane popolare in una larga parte dell’elettorato. Anche per questo in campo democratico si preferisce adottare un atteggiamento pragmatico, mettendo in rilievo soprattutto i costi e le difficoltà di realizzazione del progetto.

Nettamente diversa è poi la visione del ruolo delle Nazioni Unite. La tesi di Giuliani è che l’Onu abbia fallito e che sia pertanto arrivato il momento di cominciare a predisporre altri strumenti istituzionali. Molto meno drastica quella di McCain: si è detto favorevole alla formazione una “lega delle democrazie”, che si attiverebbe nel caso di paralisi decisionale in seno al Consiglio di sicurezza. I candidati democratici hanno invece posto l’accento soprattutto sulla riforma dell’Onu come condizione per un rilancio del suo ruolo. In particolare, l’idea di allargare il Consiglio di Sicurezza, assegnando un seggio permanente a paesi come il Brasile o l’India, trova notevole favore tra i democratici.

Finora si è discusso poco del ruolo della Nato. I repubblicani tendono ad avere un atteggiamento ambivalente: sarebbero in teoria favorevoli a un’espansione dei suoi compiti e del suo raggio di azione, ma, come l’amministrazione Bush, temono che, agendo attraverso la Nato, gli Usa finiscano per doversi sottoporre a troppi vincoli e restrizioni imposte dagli alleati. In campo repubblicano è McCain il più convinto sostenitore della Nato e più in generale, di un rapporto stretto con gli europei. Nei discorsi di Giuliani e Romney l’Europa è stata invece quasi del tutto assente. Ma anche i candidati democratici non hanno dedicato finora grande spazio ai rapporti transatlantici e al ruolo della Nato e dell’Unione europea. E’ che l’attenzione rimane, come si è detto, in gran parte puntata sull’Iraq, da cui anche gli Stati europei che hanno appoggiato la guerra del 2003 si sono progressivamente disimpegnati. Gli americani sanno che non possono aspettarsi nessun aiuto sostanziale dagli europei per districarsi dall’Iraq. Ma anche l’altro problema centrale, quello dell’Iran, tende ad essere trattato più come una questione bilaterale che come un comune problema transatlantico.

Con un’amministrazione democratica gli europei avrebbero probabilmente più facilità di trovare intese e sviluppare una proficua cooperazione. La visione di politica estera dei candidati democratici, a cominciare dall’importanza che attribuiscono al multilateralismo e al ruolo delle istituzioni, sembra infatti più in sintonia con quella prevalente in Europa. Il problema è se gli europei saprebbero cogliere questa opportunità. Su molte questioni centrali dell’agenda internazionale non hanno ancora una posizione sufficientemente chiara e univoca e anche le persistenti debolezze istituzionali dell’Ue non aiutano. In realtà, anche indipendentemente dall’esito delle prossime elezioni americane, è vitale che gli europei rafforzino la propria capacità di agire collettivamente. Questa rimane la condizione fondamentale perché possa stabilirsi un rapporto di cooperazione più efficace ed equilibrato con Washington.

Una versione più estesa di questo articolo è apparsa sul n. 5/2007 di Italianieuropei.