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Elezioni Usa: parla John C. Fortier

McCain solo contro i Democratici

14 Apr 2008 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

“Questo è l’anno dei democratici e se McCain conquisterà la presidenza non sarà grazie al suo partito, ma alla sua bravura personale” E’ l’opinione di John C. Fortier, noto analista dell’American Enterprise Institute, uno dei più influenti think tank americani di area conservatrice. Con lui abbiamo discusso delle primarie e di come potrà cambiare la politica estera di Washington nei prossimi anni.

Dott. Fortier, lei è uno dei massimi esperti a Washington di dinamiche elettorali e sta seguendo molto da vicino le primarie. Il 22 aprile si voterà in Pennsylvania. Crede che Hillary possa battere Obama questa volta?

Hillary è al momento in testa nei sondaggi. Le ultime rilevazioni le conferiscono un vantaggio di 8 punti. Questo, tuttavia, non dice molto sulla nomination. Anche se dovesse affermarsi in Pennsylvania, per Hillary sarebbe quasi impossibile recuperare lo scarto che la separa ormai da Obama. Dovrebbe sperare in un tracollo vero e proprio del suo avversario nei pochi Stati rimanenti. E anche in questo caso, si troverebbe al massimo testa a testa con Obama nella conta dei delegati.

Come ha giocato il cosiddetto “discorso sulla razza” che Obama ha pronunciato alcune settimane fa in risposta allo scandalo del suo ex-pastore, il reverendo Jeremiah Wright, che aveva usato parole incendiarie contro il “potere dei bianchi” in America e che sostiene che l’Aids sia un virus prodotto in laboratorio per sterminare la popolazione di colore?

Il discorso è stato molto apprezzato, anche da molti conservatori. Un discorso importantissimo. Obama aveva cominciato a calare nei sondaggi quando le TV mandavano in onda a ripetizione qualche settimana fa i sermoni del pastore che ha battezzato le sue figlie e che sostiene, ad esempio, che l’11 settembre è opera di Bush. Dopo il discorso, la caduta di consensi pare essersi arrestata. Ma è ovviamente difficile stabilire l’impatto esatto che ha avuto su quegli elettori che guardano all’elezione di un presidente di colore con scetticismo. In questo senso, le elezioni in Pennsylvania potranno essere un primo test. Obama ha pronunciato il suo discorso proprio a Philadelphia, in Pennsylvania, e in questo Stato dovrà dimostrare di avere appeal su quegli elettori bianchi della working class che sentono a volte di essere stati ingiustamente sfavoriti dalle leggi dell’affirmative action nate per dare garanzie aggiuntive alla popolazione di colore.

Questo, però, è l’elettorato su cui Hillary ha forse più presa
Certo, ed è per questo che è in vantaggio nei sondaggi in quello Stato. Hillary è stata fino ad ora il candidato di riferimento della working class delle aree industriali. Ma Obama nel suo discorso ha pronunciato parole molto importanti circa la discriminazione di quei bianchi che, giunti di recente in America o a rischio di declassamento, si vedono sorpassati da coloro che hanno garanzie particolari dal Governo.

Lei ha scritto di recente un articolo in cui però sostiene che la candidatura Obama, per quanto potente, non potrà modificare in maniera radicale la “mappa politica” degli Stati Uniti. In che senso?
Obama è riuscito a saldare il voto degli afroamericani con quello delle classi medio-alte ed istruite bianche. Kerry nel 2004 aveva ottenuto una percentuale molto alta del voto nero. Ma ora Obama l’ha portata probabilmente intorno al 94%, e ha mobilitato molti cittadini di colore che si mantenevano lontani dalla competizione elettorale. Allo stesso tempo, non si è presentato come un candidato nero e ha affascinato gli elettori bianchi che si stavano allontanando dalla politica o che non vi si erano mai avvicinati, come tanti giovani. Obama sta anche conquistando molti indipendenti, sempre grazie al suo fascino e al suo messaggio post-partisan. Detto questo, non credo che riuscirà a modificare sensibilmente l’orientamento di interi Stati. Ci vuole ben più di una candidatura a cambiare il colore politico di uno Stato. La sua sfida più immediata, poi, è fare breccia nell’elettorato più tradizionale del partito democratico, quello dei lavoratori, quello dei sindacati, che per ora ha guardato con maggior favore alla Clinton.

Crede che quest’ultimo elettorato possa essere intercettato da McCain? Alcuni azzardano che se Obama ottenesse la nomination, alcuni sostenitori della Clinton potrebbero perfino appoggiare McCain
Ci potranno essere dei casi simili, certo. Ma il lavoro che McCain dovrà fare è sugli elettori della classe media e medio-bassa, che non sono già schierati con i Democratici, e sono tanti, e che possono apprezzare il messaggio patriottico o le sue posizioni più conservatrici su temi morali e etici. McCain cercherà di conquistare questi elettori negli Stati incerti, come l’Ohio, dove Obama ha perso contro Hillary. Gliela metto così: se l’“effetto Obama” sarà nazionale e il suo fascino si propagherà in tutti gli Stati, allora per McCain sarà molto dura. Se il voto si giocherà Stato per Stato, allora McCain ha ancora una speranza, se sarà abile a condurre la sua campagna.

Comunque, condivide anche lei che per McCain la strada è in forte salita?
Certo. Questo è considerato l’anno dei Democratici. Alla domanda generica, senza indicare nomi, di chi diventerà il prossimo presidente degli Stati Uniti, la maggior parte degli intervistati dice: “un Democratico”. Il Congresso vedrà certamente una maggioranza ancora più netta per i Democratici, anche se McCain riuscisse a strappare la presidenza.

Si diceva anni fa che l’America era una “Right Nation”, una nazione con una maggioranza ampia e strutturale di orientamento politico conservatore. È finita quella fase?
In realtà quella fase non c’è mai stata. Rispetto a quaranta anni fa, il Partito Repubblicano è certo più forte. Ma nel 2000 il paese si spaccò in due e non vi era una chiara maggioranza conservatrice. Nel 2004, Bush ha vinto con un’ampia maggioranza. Ma già nel 2006, le elezioni del Congresso hanno prodotto una maggioranza democratica alla Camera. Quella era un’onda lunga e vi è ancora una maggioranza democratica nel paese. I Democratici chiedono proprio agli elettori di avere il doppio controllo del Congresso e della Presidenza, cosi da produrre finalmente quella svolta che inseguono dal 2000. Se McCain vince, sarà in larga misura merito suo personale.

Questo dipenderà, ovviamente, anche da quanto riuscirà a smarcarsi dall’eredità pesante di Bush.
McCain è un candidato molto particolare. Ha spesso sfidato il suo stesso partito su questioni importanti come i finanziamenti della politica. In economia, è vicino a Bush e questo lo penalizza ora che si parla di recessione. Ma ha spesso assunto posizioni indipendenti, come quando votò contro i primi tagli fiscali del presidente. In politica estera, per certi versi è perfino più “falco” di Bush. Ben prima delle prese di posizione del Generale Petraeus, McCain chiedeva una maggiore presenza militare in Iraq. Ora pare ripagato dai risultati sul campo, che sono abbastanza incoraggianti. Poi McCain è stato più duro con la Russia e più intransigente, almeno verbalmente, sulle violazioni dei diritti umani in Cina. Per altri versi, McCain è molto diverso da Bush. È contrario all’uso della tortura nella lotta contro il terrorismo, si è scagliato contro Guantanamo. È molto sensibile al tema del cambiamento climatico. Soprattutto, è un uomo che si è formato, come militare, nella Guerra Fredda. Ha grande rispetto per le alleanze che l’America costruì in quell’era. E intenderà rivitalizzarle.

Gli europei però si aspettano un vero cambiamento, e molti lo identificano con un ritorno dei Democratici alla Casa Bianca. Non crede che un presidente Democratico sarebbe ancora più sensibile al tema del multilateralismo?
Certo, i Democratici sono tradizionalmente più sensibili al tema del multilateralismo. E in questo senso hanno maggiore appeal tra gli europei. Ma McCain si è di recente espresso in modo molto chiaro sul bisogno di rilanciare le alleanze dell’America.

Sull’Onu non sono mancate critiche, tuttavia. A dire il vero, alcune di queste sono state trasversali ai maggiori partiti. Non crede che l’orientamento oggi prevalente in America, al di là dei candidati, sia quello di un rilancio del multilateralismo che però non passi necessariamente per l’Onu?
Si. L’Onu non gode di grande stima, anche tra alcuni Democratici. Ciò di cui l’America ha bisogno è rafforzare la collaborazione con gli alleati. Molti pensano a qualcosa di più ampio delle “coalitions of the willing”, ma meno dell’Onu.

Non va in questa direzione la proposta di McCain di una “Lega delle Democrazie”, più ampia della Nato, ma alternativa, di fatto, all’Onu?
Sembra proprio di sì. McCain intende rafforzare il rapporto con gli alleati dell’America, ma è scettico nei confronti delle Nazioni Unite. Intende tendere la mano alle democrazie di tutto il mondo, ma senza rimanere invischiato nelle Nazioni Unite.

Ma una Lega delle Democrazie non renderebbe la relazione transatlantica meno esclusiva? Non scavalcherebbe la Nato?
McCain ha parlato di una Nato forte e di una forte Unione Europea proprio in un discorso recente. Ma certo, la Lega delle Democrazie consentirebbe agli Stati Uniti di avere un ventaglio più ampio di interlocutori. Ciò che realmente conta per l’America è che multilateralismo significhi anche assunzione di responsabilità. Bush ha rilanciato il multilateralismo dopo il primo mandato, insistendo però che si traduca in maggiori responsabilità per gli europei. Non è risultato credibile, tuttavia, per le scelte unilaterali fatte in precedenza. La situazione cambierà con il prossimo Presidente.

Ammesso che tutti i candidati alla presidenza degli Stati Uniti siano interessati a ristabilire un’alleanza piena con l’Europa, cosa potrebbero trovare i governi europei in McCain che non trovano in Obama o nella Clinton?
C’è in verità un tema poco discusso della campagna elettorale che invece dovrebbe interessare molto da vicino gli europei. È il tema del commercio. Anche a causa della prolungata campagna delle primarie, i due candidati Democratici hanno dovuto indulgere in appelli protezionistici che hanno forte presa sull’elettorato, soprattutto negli Stati industriali dove vi è crisi economica. Parte di questa retorica populistica e protezionistica sarà abbandonata dopo le elezioni e non verrà tradotta in politiche. Ma sul principio del libero commercio gli europei e la comunità internazionale nel suo complesso hanno certamente più garanzie da parte di McCain, che è stato molto più chiaro sull’argomento.