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2 - IL PIANO DI PACE PER IL MEDIO ORIENTE

Arcipelago Cisgiordania: indipendenza o protettorato?

31 Gen 2020 - Francesco Bascone - Francesco Bascone

La proposta americana di soluzione della questione palestinese (analizzata nei giorni scorsi su queste pagine) è stata stracciata da quasi tutti i più autorevoli organi di informazione, ma alcuni commentatori di orientamento conservatore hanno voluto vedervi un punto di partenza ‘realistico’ per negoziati di pace. In tal senso si sono espresse, forse più per cautela diplomatica che per convinzione, varie cancellerie, da Il Cairo a Parigi.

Che nella primavera del 2017 il neo-presidente statunitense Donald Trump, nell’affidare questa missione al genero, si prefiggesse effettivamente di trovare una via d’uscita dall’impasse israelo-palestinese, così da passare alla storia come colui che sarebbe riuscito là dove vari predecessori avevano fallito, è plausibile. Ma la scelta di incaricarne un giovane uomo d’affari, del tutto ignaro delle intricate problematiche mediorientali e forte solo dei suoi buoni rapporti con Riad, lasciava presagire l’impostazione arrogante e dilettantesca che abbiamo poi visto anche in altri scacchieri. L’avergli affiancato un falco come Jason Greenblatt e un super-falco come l’Ambasciatore David Friedman stroncava sul nascere qualsiasi illusione circa un minimo di terzietà.

Diktat e Piano Marshall
Una volta chiarito che il ruolo degli Stati Uniti non è più quello di mediatore bensì di alleato della parte più forte, la strategia consisteva nell’umiliare e demoralizzare l’avversario (chiusura dell’ufficio palestinese a Washington, soppressione degli aiuti bilaterali e multilaterali, spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, legittimazione degli insediamenti, ecc.), imporgli condizioni inique, premiarlo con aiuti economici e investimenti (a spese degli sceicchi).

Infatti Jared Kushner non ha compiuto alcuno sforzo per indurre il Premier israeliano Benjamin Netanyahu a fare concessioni (unica eccezione: la rinuncia a costruire nuovi insediamenti nei prossimi quattro anni nelle zone lasciate ai palestinesi). Si è limitato ad indorare la pillola prospettando finanziamenti dell’ordine di 50 miliardi di dollari da parte delle monarchie del Golfo per lo sviluppo economico dei territori palestinesi “e di paesi arabi vicini” (quasi metà andrà a Egitto, Giordania e Libano); somma peraltro spalmabile su 10 anni, e in buona parte costituita da prestiti e da aleatori investimenti privati. Se davvero si dovesse procedere alla costruzione dell’assurdo tunnel fra Gaza e la Cisgiordania, il faraonico progetto assorbirebbe una buona fetta dei fondi destinati a infrastrutture.

Erano ipotizzabili soluzioni più eque?
Sarebbe stato pensabile un piano più equo, ispirato alle soluzioni negoziali studiate durante il ‘processo di Oslo‘? In proposito è utile ricordare che l’accordo concluso nel settembre 1993 a Washington (detto ‘di Oslo’ perché negoziato segretamente in Norvegia) si limitava ad indicare un obiettivo, un metodo e un percorso negoziale, con delle scadenze; sulla sostanza dei problemi più ardui si svolsero trattative nel 1995, e poi nel corso del 2000 e nel gennaio 2001. Nei ‘Clinton parameters formulati dal presidente uscente il 23 dicembre 2000 e nella relazione sul successivo negoziato di Taba (fine del processo di Oslo) si potrebbero trovare ipotetiche formule di compromesso sui singoli punti; altre furono concordate a livello non ufficiale nel cosiddetto accordo di Ginevra del 2003.

Da allora sono però state create sul terreno nuove realtà che rendono problematica, anche qualora ve ne fosse la volontà politica, la creazione di un Stato palestineseviable’. Il numero dei coloni è quadruplicato (circa 450 mila). La rete di strade costruita a loro uso esclusivo frammenta, come già accennato, il territorio. Il Muro ha anticipato le correzioni del confine previste nei suddetti negoziati in modo da includere il maggior numero possibile di coloni (8,5 % del territorio), superando la percentuale ritenuta ragionevole da Bill Clinton (3-6%).

Di fronte a questo irreversibile peggioramento della situazione di fatto per i palestinesi, e alla loro perdita di potere negoziale a seguito del sostanziale avallo dato a Trump dalle monarchie del Golfo (eccettuati Kuweit e Qatar) e dall’Egitto, vari commentatori sostengono che sarebbe realistico da parte di Mahmud Abbas rassegnarsi ad accettare il Diktat, pur di salvare il salvabile (autonomia delle zone A e B) e assicurarsi gli aiuti economici. E riconoscono a Trump il merito di aver proposto un pacchetto ragionevole, considerate le mutate circostanze rispetto a 20-25 anni fa.

Se davvero il ‘primo genero’ avesse voluto elaborare un piano più bilanciato, avrebbe cercato di compensare il peggioramento della situazione sul terreno (insediamenti, strade, muro) e l’assoluta priorità data alla sicurezza di Israele (smilitarizzazione, spazio aereo) ripescando dai negoziati del 2000-2001 clausole moderatamente favorevoli ai palestinesi su altri punti: sovranità sui quartieri arabi di Gerusalemme e sulla Spianata del Tempio, ricongiungimenti familiari e ritorno selettivo di un certo numero di rifugiati, presenza israeliana nella Valle del Giordano limitata ad alcune guarnigioni e/o posti di osservazione. Non è stato così.

È significativo che il piano del giovane immobiliarista americano sia stato duramente criticato dal quotidiano israeliano Haaretz non solo perché unilaterale e inaccettabile per i palestinesi, ma anche in quanto nocivo per gli stessi interessi di Israele: esso indebolirà i palestinesi moderati, rafforzerà il fronte del rifiuto, infiammerà le proteste nelle città palestinesi, metterà in difficoltà i governi egiziano e giordano (e forse quelli del Golfo) di fronte alle loro opinioni  pubbliche, produrrà esplosioni di violenza.

Una doppia operazione elettorale
Le reazioni erano largamente prevedibili. Se ciononostante è stato deciso di lanciare il piano Kushner, e di farlo adesso e con grande enfasi, dobbiamo concluderne che non siamo più di fronte ad un tentativo di promuovere una via di uscita dal conflitto israelo-palestinese, bensì a una operazione di immagine a beneficio dei due protagonisti dell’evento mediatico del 28 gennaio: entrambi hanno bisogno di distrarre l’attenzione da indagini su loro comportamenti illeciti (più Netanyahu, sotto processo per reati punibili col carcere, che Trump, comunque sicuro di uscire vittorioso dallimpeachment), ma soprattutto di mostrarsi capaci di azioni costruttive in vista dei rispettivi appuntamenti elettorali.

Il Presidente Usa sbandiererà il sostegno incondizionato dato a Israele per assicurarsi non solo il voto ebraico ma anche quello dei cristiani evangelici del Bible Belt. Il leader del Likud si presenterà alle elezioni del 2 marzo come uno statista che ha saputo assicurarsi il pieno appoggio dell’America, far progredire il disegno del grande ‘Erez Israel‘, proporre un piano di pace ‘realistico’ e dimostrare l’indisponibilità della parte palestinese a una soluzione negoziata.

Seconda parte dell’articolo “Arcipelago Cisgiordania: indipendenza o protettorato?” pubblicato il 30 gennaio 2020.