La politica estera di Obama: un’opportunità per l’Europa?
Gli slogan di ambedue i candidati alle elezioni presidenziali americane del prossimo novembre puntano tutti sulla promessa di un profondo cambiamento che risponda all’estrema impopolarità dell’attuale amministrazione. Così, John McCain, repubblicano, ha affermato che, una volta eletto, imprimerà un forte cambio di direzione, cominciando dalla politica estera. Il candidato democratico Barack Obama da parte sua ha impostato la sua intera campagna elettorale sull’idea di cambiamento, espressa con un linguaggio insieme dotto e messianico, e scandita dallo slogan (ispirato, ma stucchevole) “yes, we can”: sì, noi possiamo.
“Yes we can”. But what?
Il nuovo corso sembra dunque assicurato, ma non è ancora ben chiaro in che cosa esso consisterà. Gli occhi ovviamente sono puntati su Obama e sulla sua visione di politica estera, i cui contorni sono andati definendosi nel corso delle primarie, ma che rimane ancora abbastanza fluida e imprecisa, tanto da essere considerata uno dei suoi maggiori punti deboli.
Obama incarna, o almeno prova ad incarnare, un cambiamento insieme politico e generazionale, di un certo spessore culturale. Diversamente McCain quando afferma di volere una nuova politica estera per l’America, cerca soprattutto di smarcarsi dall’eredità assai pesante della politica estera di Bush, in particolare in Iraq, ma non solo. La sua critica è operativa, non concettuale: egli denuncia l’esecuzione della strategia post 11 Settembre, non le sue premesse analitiche né la sua filosofia di fondo. Di conseguenza, l’impianto strutturale rimane in larga misura simile: lotta, soprattutto militare, contro il terrorismo; adozione di una visione manichea del sistema internazionale, la cui linea di frattura fondamentale rimane quella tra democrazia ed autoritarismo; cultura della sicurezza nazionale come elemento fondante dell’identità politica dell’America del 21esimo secolo.
Obama si muove su un altro piano. La sua linea di politica estera non può limitarsi a ribadire l’esigenza di invertire la direzione della politica di Bush. Deve offrire qualcosa di più: in termini di proposta, visione, immaginazione. Proprio per questo, però, questa linea risulta ancora vaga, difficile da definire e ancor più da prevedere. Obama si oppone alla continuazione dell’occupazione militare americana dell’Iraq e propone un ritiro rapido e certo delle truppe, al ritmo di una o due brigate al mese per un totale di 16 mesi. Ma molti ritengono che questa decisa correzione della strategia attuata da Bush risulterà di fatto difficilmente praticabile quanto meno nei tempi e nei modi indicati da Obama. Essa quindi viene letta soprattutto come il tentativo, per ora appena abbozzato di concepire in modo nuovo il ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Salto generazionale
L’elemento generazionale è però importante e va sottolineato. Obama non si è formato negli anni Sessanta e Settanta, come è accaduto sia a Bill Clinton sia a George W. Bush. Su di lui hanno esercitato un’influenza relativa non solo la Guerra Fredda ma anche il post-Guerra Fredda, quel lungo decennio di transizione marcato dal trionfalismo della “fine della storia”, ma anche da inaspettati tuffi nel passato (il riemergere prepotente dei conflitti etnici e religiosi), che si chiuse con la clamorosa smentita di molte delle ottimistiche previsioni formulate dopo il crollo dell’Urss. Forse anche per questo Obama sembra avere l’ambizione di offrire una visione di politica estera capace di superare non solo il bushismo ma anche il clintonismo degli anni ‘90, che fu ispirato da una fiducia quasi assiomatica nelle sorti progressive della globalizzazione e in un’egemonia americana non solo “senza eguali”, ma anche “senza rivali”.
Obama vorrebbe riportare speranza ad un’America impaurita non solo dal fenomeno terroristico e dalle altre minacce globali, a partire dalla proliferazione nucleare, ma anche in buona misura da se stessa e dalla drammatica scoperta dei suoi tanti limiti: quelli, inattesi, della sua macchina bellica; l’isolamento che anche il paese egemone si è trovato a subire quando le sue decisioni politiche sono state percepite come arroganti; la fatica della democrazia statunitense a reggere i colpi delle politiche intrusive promosse da Bush in nome della sicurezza nazionale, la crisi economica, eccetera. Tutto questo appanna il futuro dell’America e Obama (e molti Democratici con lui) pensa che solo un profondo cambiamento di politica e di “visione” potrà porvi rimedio .
Multilateralismo e diplomazia “aggressiva”
Innanzitutto, quindi, il candidato democratico punta a recuperare la fiducia e l’appoggio degli alleati attraverso un rilancio del multilateralismo. A questa strategia politico-diplomatica, volta a ricostruire una rete di relazioni consensuali e collaborative con il resto del mondo, si accompagna un programma di rafforzamento delle capacità militari americane, da perseguire puntando allo sviluppo di nuove tecnologie e accrescendo il numero degli uomini: 65000 soldati in più per l’Esercito e 27000 per i marines. Alcune proposte, avanzate per superare gli ostacoli incontrarti da Bush, hanno già suscitato un’aspra reazione da parte Repubblicana: su tutte la sollecitazione a dare corso ad una diplomazia “aggressiva” nel Medio Oriente, che coinvolga i maggiori attori regionali, anche se rivali dell’America, come la Siria e l’Iran. C’è, poi, l’impegno a rafforzare la Nato per gestire con più efficacia la crisi afgana, ma anche l’idea di creare un’istituzione simile a quella atlantica nell’ampio e variegato teatro asiatico, che superi gli attuali rapporti bilaterali e che aiuti gli Stati Uniti a fare fronte con più risorse ed in modo più coordinato all’ascesa della Cina.
È proprio sulla “governance globale”, tuttavia, che la visione di Obama resta particolarmente vaga ed elusiva. Agli ambiziosi propositi per una nuova politica estera americana in Medio Oriente – si pensa non solo di dialogare con l’Iran, ma di includerlo nel WTO se Teheran rinunciasse al programma nucleare e al terrorismo – non sono seguite per il momento indicazioni altrettanto chiare, e soprattutto innovative, circa la politica da adottare verso la Cina e la Russia. Se McCain riprende da Bob Kagan, il noto commentatore neoconservatore, l’idea di creare una “Lega delle Democrazie” per contenere le due potenze emergenti ed “autoritarie”, proiettando così nel mondo postbipolare un manicheismo non dissimile a quello della Guerra Fredda, Obama per ora si rifugia in generici richiami a nuovi strumenti di governance, o all’invocazione a fare uso di quelli esistenti. L’Onu, in realtà già trascurata da Clinton prima ancora che umiliata da Bush, sembra tornare centrale nella soluzione di Obama per il rebus mediorientale (le Nazioni Unite rientrerebbero in Iraq dopo il ritiro militare Usa). Tuttavia, rimane abbastanza oscuro quale tipo di ordine internazionale Obama abbia in mente (e soprattutto le basi di legittimità su cui esso dovrà poggiare: sovranità, democrazia, potere economico, forza militare?). Soprattutto, poco affrontato è il problema, ormai ineludibile, di una riforma della struttura delle Nazioni Unite.
Europa senza alibi
Cosa significa questa indeterminatezza per gli alleati dell’America, a cominciare da quelli europei? Obama ha un capitale di popolarità internazionale, in Europa come nel mondo, che gli tornerà di grande utilità qualora fosse eletto. Per assicurarsi che esso sia investito nel modo più coerente con quelli che sono gli interessi europei, l’Europa farebbe meglio ad incalzare Obama con iniziative internazionali concrete, invece che attendere passiva i nuovi e tanto attesi segnali della Casa Bianca, che potrebbero pervenire in ritardo o non nella forma voluta. Già i sostenitori statunitensi del multilateralismo fanno notare che gli Europei non avranno più “scuse” dopo l’uscita di scena di Bush per sottrarsi alla gestione delle crisi internazionali che minacciano la pace nel mondo. Proprio il “fattore generazione” potrebbe indurre Obama ad essere meno incline di McCain a considerare l’Europa come interlocutore naturale e privilegiato. Per converso, proprio perché meno vincolato dalle regolarità del passato, Obama potrebbe sorprendere gli Europei per capacità d’ascolto ed apertura di credito. Insomma, se eletto, Obama si cimenterà con l’impresa complessa di tradurre la biografia di una nuova generazione non solo nella nuova ed aggiornata biografia degli Stati Uniti, ma anche in una visione di politica estera. Per un’Europa che ama rappresentarsi come un soggetto internazionale ed un modello politico nuovo, sfruttare questa occasione di rinnovamento significa diventarne il più possibile autrice anziché mera spettatrice.