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La crisi in Georgia

La partita a scacchi con Mosca e i principi dell’Occidente

21 Ago 2008 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Quali saranno le prossime mosse di Putin e Medvedev nella pericolosa partita a scacchi che i due leader russi hanno intavolato con l’Occidente sulla crisi georgiana? Il presidente della Georgia Mikhail Saakashvili ha accusato la Russia di volere un cambio di regime. È quanto ha sostenuto anche il presidente del parlamento georgiano David Bakradze:i russi starebbero puntando, secondo lui, a un cambio di regime “indiretto” in Georgia, cioè non più attraverso l’uso della forza, ma attraverso pressioni politiche e l’isolamento della già fragile economia del paese. Per quanto difficilmente verificabili, le rivelazioni dell’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Zalmay Khalilzad, secondo cui l’uscita di scena di Saakashvili è stata esplicitamente caldeggiata da Mosca durante i contatti con i leader occidentali nelle ore più delicate della crisi, suggeriscono che la tesi del cambio di regime non può essere liquidata sbrigativamente come un’invenzione della propaganda governativa di Tbilisi.

Asimmetria di interessi e principi comuni
Posti di fronte ad uno scenario così incerto e minaccioso, Europa e Stati Uniti dovrebbero lavorare a una strategia comune, che vada oltre le pur necessarie e a volte discordanti tattiche diplomatiche delle ultime settimane. Non si può lasciare l’iniziativa nelle mani del Cremlino che sta paradossalmente facendo dell’indeterminatezza dei suoi obiettivi ultimi e dello scarto tra dichiarazioni ed azioni un suo punto di forza. Perché ciò accada, tuttavia, le diplomazie occidentali dovranno trovare un livello minimo di consenso sui principi che devono guidare la risposta alla crisi georgiana.

Il comunicato finale della riunione straordinaria del Consiglio Atlantico è solo in parte riuscito a mascherare le divergenze esistenti tra europei e americani e in seno all’Europa: l’alleanza ha condannato con fermezza il comportamento russo e ha annunciato alcune iniziative a sostegno della Georgia, ma si è riservata ulteriori decisioni a seconda di quel che farà Mosca nel frattempo.

Le differenze all’interno dell’alleanza sono per lo più riconducibili ad un’asimmetria di interessi politici ed economici nei confronti della Russia: l’Europa tutta, a differenza degli Usa, è dipendente da Mosca per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, mentre in seno all’Europa gli ex-satelliti dell’Unione Sovietica tendono naturalmente a vedere la disinvolta politica del Cremino nelle aree limitrofe come una minaccia alla loro sicurezza e autonomia politica.

Queste innegabili asimmetrie non dovrebbero tuttavia oscurare l’esistenza di principi fondamentali, come la sovranità e integrità territoriale degli Stati e il diritto dei popoli di decidere autonomamente da quale governo essere governati, che è interesse supremo di tutti i paesi occidentali, senza eccezioni, difendere e promuovere. Si è inoltre stabilito di comune accordo che la porta dell’Alleanza Atlantica debba rimanere aperta a chi ne rispetti i criteri d’adesione. Su questi principi è stata costruita l’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Ed è estendendoli al resto del continente che è stata edificata l’Europa unita del nuovo secolo. Nessun calcolo economico o politico, per quanto fondato esso sia, può far tollerare violazioni o eccezioni a tali principi: il rischio è che si minino le basi stesse della pace europea, per non parlare della credibilità internazionale degli Stati Uniti e della stessa Unione europea che sul rispetto delle norme fondamentali del diritto internazionale ha inteso fondare la sua identità politica.

Le false scorciatoie dell’ideologia e del cinismo
È quindi auspicabile che si segua una linea di azione che s’ispiri a un “principled realism”, che cioè, pur tenendo conto degli interessi in gioco, non rinneghi, ma faccia leva sui principi di cui sopra. Uno degli elementi preoccupanti della reazione occidentale alla crisi georgiana è stato il dividersi delle cancellerie – passando per i commentatori politici giù giù fino all’opinione pubblica – tra una lettura ideologica ed una cinica degli avvenimenti delle ultime settimane e dunque anche della risposta da darvi. Da un lato, vi sono quelli che hanno rispolverato il vocabolario e i toni della Guerra Fredda, dipingendo l’“orso russo” intento a divorare la piccola repubblica confinante, e hanno chiesto che si faccia catenaccio contro la Russia, espellendola dai maggiori fori internazionali, a cominciare dal G-8. Dall’altro, vi sono coloro che hanno invitato a prendere atto, fino quasi a compiacersene, del fatto che “la storia non è finita” nel 1989, tacciando di ingenuità chi condannava l’invasione come “incoerente” con le logiche del 21° secolo, tra cui lo stesso presidente Bush.

L’ideologia e il cinismo, per quanto attraenti, non hanno mai ispirato strategie di successo: offrono letture semplificate, quasi sempre fuorvianti, della realtà internazionale e fanno balenare scorciatoie che spesso vanno poi a finire in vicoli ciechi. Una lettura ideologica della partita ora aperta tra Russia ed Occidente non tiene conto delle enormi differenze non solo di contesto storico, ma anche di peso politico e potere militare, tra l’Unione Sovietica del secondo dopoguerra e la Russia di oggi. Il rifiuto pregiudiziale di considerare Mosca un interlocutore credibile, solo perché espressione di un regime non pienamente democratico, fa sì non solo che si riproduca di fatto un clima da Guerra Fredda, ma che, come accadde per la strategia di contenimento, l’Occidente finisca, contro il suo interesse, per saldare assieme avversari che altrimenti resterebbero separati.

La fine della Guerra Fredda fu agevolata, infatti, non solo dalla forza di attrazione esercitata dal modello occidentale, ma anche dal riconoscimento da parte dei leader europei ed americani che il “blocco anti-occidentale” era in realtà pieno di crepe, a cominciare da quella tra Mosca e Pechino. Chi, come alcuni neocons americani, e per certi versi lo stesso candidato repubblicano alla presidenza Usa, John McCain, accomuna la Russia all’Iran di Ahmadinejad e all’ampia schiera di altri paesi non democratici come la Cina, introduce un manicheismo che, dividendo il mondo tra “buoni” e “cattivi”, non fa che spingere i secondi a coalizzarsi contro i primi. Una delle ragioni più evidenti per cui l’Occidente dovrebbe pensarci due volte prima di rompere completamente con la Russia nasce invece proprio dal riconoscimento che Mosca può essere determinante nel neutralizzare minacce di prima grandezza alla sicurezza internazionale, come l’ascesa di un Iran nucleare.

Da parte sua, tuttavia, il realismo diventa disfattista nonché corrotto moralmente quando si traduce in una passiva accettazione della realtà. Riconoscere che la Russia continua a guardare al Caucaso e all’Europa orientale come un padrone guarda al suo cortile di casa non deve equivalere a giustificare tale comportamento, per quanto profonde possano esserne le radici nella storia russa prima come impero, poi come superpotenza e infine come rinata potenza energetica e regionale. L’Europa per cui l’Occidente tutto si è battuto nel secolo scorso è un’Europa “senza padroni”. Un’Europa che, se non “ha chiuso i libri di storia”, sicuramente vuole che si chiuda una volta per tutte il lungo e cruento capitolo dei nazionalismi e degli imperialismi. Una strategia che sacrifichi questi ideali nel nome del realismo, non è una strategia realista, ma una strategia perdente che, dando per scontata l’incapacità di modificare la realtà internazionale nella direzione degli interessi occidentali, porta necessariamente all’inazione e alla passività.

Riprendere l’iniziativa
Che fare, dunque? Invece che favorire un’escalation della contrapposizione con Mosca, esasperando le tensioni degli ultimi tempi e trasferendole nei maggiori fori internazionali, le cancellerie occidentali dovrebbero rimanere ferme sui principi fondamentali: nessun stato europeo, inclusa la Georgia, può vedere violati i suoi confini internazionali e forzato direttamente o indirettamente il suo regime politico da parte di potenze straniere; ogni stato europeo che rispetta i criteri di adesione ha diritto ad entrare nella Nato, anche quando questioni di opportunismo politico potrebbero suggerire conclusioni diverse. Europa e Stati Uniti devono non solo affermare, ma anche attuare tali principi minacciando, se necessario, la presenza militare della Nato in territorio georgiano come deterrente contro eventuali nuovi interventi militari da parte russa. Devono inoltre insistere perché nelle due repubbliche secessioniste della Georgia venga inviato un numero cospicuo di osservatori internazionali per verificare le ripetute denunce di pulizia etnica e lavorare alla costituzione di una forza neutrale di interposizione che garantisca i diritti del popolo georgiano e delle minoranze. Il processo di adesione della Georgia alla Nato, a cominciare dall’eventuale offerta del Membership Action Plan (Map), non deve subire accelerazioni repentine – come vorrebbero i nuovi cold warriors – né al contrario rallentamenti – come vorrebbero certi “realisti” – ma dipendere dal raggiungimento di alcuni standard codificati – come l’esistenza di uno stato di diritto e l’assenza di conflitti interni – che non dovrebbero mai diventare oggetto di negoziato o, peggio, scambio, tra l’Occidente e le altre potenze internazionali.