IAI
Intervista a Michael Mandelbaum

Per Obama la sfida esterna più importante sarà l’Afghanistan

28 Gen 2009 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Docente di politica estera americana presso la Johns Hopkins University di Washington e noto commentatore di fatti internazionali, Michael Mandelbaum ha seguito da vicino l’insediamento dell’amministrazione Obama, ed è ora tra i tanti in America ad attendere le prime mosse di politica estera del nuovo governo.

Prof. Mandelbaum, la grave situazione economica interna sembra aver posto in secondo piano la politica estera. L’amministrazione si è mossa, a dire il vero, con straordinaria rapidità sulla chiusura della prigione di Guantanamo; farà altrettanto con il ritiro delle forze americane dall’Iraq?
Non c’e’ dubbio che la priorità dell’amministrazione Obama sarà affrontare una recessione che sembra approfondirsi di mese in mese. La politica estera occuperà, se va bene, solo il secondo posto nella nuova agenda presidenziale. Obama dovrà, comunque, mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale, a cominciare dall’Iraq. Credo che il ritiro delle forze militari comincerà presto, anche se procederà lentamente e inizialmente riguarderà piccoli numeri. Ma la vera sfida sarà l’Afghanistan.

Può spiegarsi meglio?
Come affrontare gli sviluppi della guerra in Afghanistan sarà il tema più impegnativo della nuova amministrazione, per quanto riguarda la politica estera. La dura critica all’occupazione dell’Iraq si è accompagnata, nel messaggio di Obama, ad un’enfasi sull’Afghanistan come vero fronte della guerra al terrorismo. Ma è molto difficile ora pensare ad una stabilizzazione politica del paese in breve tempo e con un impiego di risorse economiche e militari ridotte. L’America ha un budget limitato e gli alleati europei, per quanto pronti a collaborare con il nuovo presidente, sembrano riluttanti ad investire risorse maggiori nella missione Nato nel paese. Se Obama deciderà di mantenere la promessa fatta durante la campagna elettorale, gli Stati Uniti potrebbero presto trovarsi impantanati in un nuovo conflitto armato di vaste proporzioni che non possono vincere; se, invece, la promessa non verrà mantenuta, , il rischio è duplice: Obama sarà chiamato a pagarne i costi politici e dovrà accettare che l’Afghanistan possa tornare a tutti gli effetti una nazione-rifugio per i terroristi islamici.

Nell’ultimo numero di Foreign Affairs Roger Altman sostiene che la crisi economica si tradurrà, in termini geopolitici, in un indebolimento sostanziale della posizione dell’Occidente nello scacchiere internazionale. Una previsione troppo fosca?
Negli anni a venire, una quota crescente del prodotto interno lordo mondiale proverrà dall’Asia. Saranno in particolare la Cina e l’India a guadagnare posizioni. Nella misura in cui il potere internazionale dipende dalla produzione di merci e beni, l’Asia diventerà un soggetto politico più potente, anche se questo avverrà alle spese di un’Europa ormai in declino più degli Stati Uniti. Due fatti vanno puntualizzati, infatti: la crisi attuale sta indebolendo tutte le economie mondiali e alla fine dei conti può essere che gli Stati Uniti siano quelli che ne subiranno le conseguenze minori; secondo, anche se l’Asia pare destinata a diventare politicamente più influente, questo processo prenderà molti anni; non è una cosa di domani.

Che pensa del “national security team” scelto da Obama, ed in particolare dell’ex-senatrice e rivale Hillary Clinton come Segretario di Stato?
È difficile prevedere come una persona che ha già avuto ruoli politici di primo piano a livello nazionale, come Hillary Clinton, si comporterà nell’ambito della politica estera. E risulta anche assai difficile predire quale sarà l’interazione esatta tra le tante personalità che un tempo servirono nell’amministrazione Clinton, ora che la loro posizione e i loro interlocutori sono cambiati. Sia il tono che la direzione della politica estera americana, è bene sottolineare, sono tuttavia il prodotto di due fattori principali: il presidente e le questioni di politica estera che si proporranno durante il suo mandato. La squadra presidenziale è un fattore importante, ma non determinante.

Per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, condivide anche lei l’ottimismo di molti secondo cui l’amministrazione Obama riuscirà a sanare i conflitti emersi in occasione della guerra in Iraq, ma poi mai completamente risolti?
Un test cruciale per la tenuta dell’Alleanza Atlantica sarà, come accennato prima, l’Afghanistan. Un secondo banco di prova importante saranno i rapporti con la Russia. Le relazioni tra Stati Uniti e Russia si sono seriamente deteriorate negli ultimi anni e questo ha avuto conseguenze negative per l’Occidente nel suo complesso. Le colpe tuttavia, non sono tanto di Bush quanto di Clinton che, negli anni ’90, prese la decisione incauta di allargare la Nato verso la Russia, nonostante le obiezioni di Mosca e anzi chiarendo che l’ex nemico sovietico non sarebbe stato invitato a far parte dell’ alleanza. La Russia vede l’espansione della Nato come un’iniziativa chiaramente anti-russa, e tutto sommato, è difficile cambiare questa percezione.

Crede dunque che l’amministrazione Obama debba abbandonare la politica di allargamento dell’Alleanza?
La politica americana su questo fronte deve risolvere un dilemma. L’ingresso di Ucraina e Georgia è già parte dell’agenda della Nato. Se gli Stati Uniti continuano a sostenere questa politica in modo attivo, il rischio non è solamente un irrigidimento di Mosca, ma la spaccatura dell’Alleanza Atlantica. La Francia o la Germania, o forse entrambe, porrebbero probabilmente il veto ad un ulteriore allargamento dell’alleanza se la nuova amministrazione premesse su questo punto. Questo causerebbe una tensione interna alla coalizione occidentale non meno grave di quella che si produsse in occasione dell’invasione dell’Iraq. Al contempo, se Obama non farà nulla, di fatto si produrrà in Europa quella situazione che il suo predecessore democratico, Clinton, promise che non si sarebbe mai più verificata: un nuovo fossato spaccherebbe l’Europa, e Georgia ed Ucraina si ritroverebbero isolate.

Cosa dovrebbero fare, in concreto, Europa e Stati Uniti?
Gli Stati Uniti dovrebbero in qualche modo segnalare che sono disposti a tempi più lunghi per quanto riguarda l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato e al contempo fare pressione sull’Unione Europea perché rafforzi immediatamente le relazioni con i due paesi. L’interesse dell’Occidente è di continuare a cooperare con la Russia, anche se la Russia di Putin e Medvedev è un partner difficile, dove si stanno sempre più rafforzando le tendenze autoritarie. Col tempo potrebbe esserci però un’evoluzione interna positiva.

C’e’ qualcosa che gli Stati Uniti possono fare per rendere l’Europa meno dipendente dall’approvvigionamento energetico dalla Russia?
L’unica vera soluzione sta in una cooperazione più stretta tra gli europei, che finora stenta a vedersi. Tuttavia, è bene sottolineare che gli Usa hanno grandi responsabilità: hanno impostato e condotto una politica energetica che ha finito per danneggiare gli interessi dell’Occidente a livello globale. Il consumo sproporzionato di petrolio da parte dell’economia americana si è tradotto in introiti enormi per i paesi produttori, molti dei quali – come l’Iran di Ahmadinejad e il Venezuela di Chavez – sono indifferenti o ostili ai valori occidentali e pronti a contrastare gli interessi di Stati Uniti ed Europa. Gli americani devono assolutamente ridurre il consumo di petrolio nel futuro adottando un regime di tassazione sullo stile di quello europeo. Il prezzo artificialmente basso del petrolio che i consumatori americani pagano oggi è un fallimento della nostra governance e della nostra politica estera. Riportare quel prezzo ai suoi valori normali sarà una delle sfide con cui l’amministrazione Obama sarà chiamata a misurarsi.