Dalla “guerra al terrore” alla svolta di Obama
La vittoria di Obama nel nome del “cambiamento” ha alimentato l’attesa di una trasformazione profonda della politica estera americana. Non stupisce, dunque, che noti esperti e studiosi di politica internazionale sia europei sia americani abbiano tentato, con proposte spesso ambiziose e analisi ad ampio raggio, di indicare le direttrici lungo le quali dovrebbe svilupparsi questa svolta tanto attesa. Tra i contributi più recenti ed autorevoli meritano particolare menzione il rapporto della Rand Corporation sulla “rivitalizzazione della partnership transatlantica”, il Washington Nato Project, a cui hanno collaborato quattro tra i più importanti centri studi americani tra cui il Csis e il Center for Transatlantic Relations, e lo studio del Chatham House di Londra centrato sulla questione del futuro della leadership Usa.
Nonostante importanti differenze di impostazione, i tre studi presentano notevoli somiglianze che configurano, nel complesso, l’esistenza di un consenso piuttosto ampio tra gli esperti sia sulle ragioni degli insuccessi di Bush, sia sulle linee guida per rendere effettiva la svolta promessa da Obama, sia, infine, sulle priorità strategiche immediate.
Lo specchio deformante della “guerra al terrorismo”
Comune ai tre studi è la critica non solo delle decisioni specifiche prese dal governo degli Stati Uniti tra il 2001 al 2008, ma anche dell’impostazione generale della politica americana dopo l’11 settembre, in particolare dell’unilateralismo e della dottrina della “guerra preventiva”. Tutti e tre gli studi pongono l’accento anche sulla profonda inadeguatezza dell’orizzonte ideologico e strategico della “guerra al terrorismo”, definito “semplicistico” nel rapporto conclusivo del Washington Nato Project, e considerato “da abbandonare” nello studio della Rand.
A essere contestato non è ovviamente l’impegno del governo americano contro il terrorismo, che nei tre studi viene anzi presentato come centrale e necessario, ma la deformazione introdotta da un approccio che ha teso a definire il nuovo secolo essenzialmente nei termini di una sfida ideologica, da vincersi prima di tutto sul piano militare, tra l’America ed il “mondo libero” da una parte e “i terroristi” dall’altra. Tale lettura per molti versi manichea della realtà internazionale ha avuto come effetto, fra l’altro, la tendenza a ignorare la complessità dello scenario internazionale: altre minacce alla pace del mondo, come le politiche talvolta revisionistiche di certi regimi non democratici, sono state collegate strettamente, al paradigma tendenzialmente onnicomprensivo della “war on terror”, mentre altre, quali il mutamento climatico o le emergenze energetiche, sono invece state trascurate.
Questa particolare rappresentazione della realtà, che poneva l’America al centro di uno scontro la cui posta in gioco era niente meno che la sopravvivenza della “civiltà”, ha consentito non solo di presentare la leadership Usa come assolutamente necessaria, in quanto unica fonte salvifica, ma ha anche alimentato la pretesa che essa dovesse essere esentata da ogni obiezione o critica sui modi e le forme con cui ha esercitato il potere.
Multipolarismo e crisi della leadership Usa
Il futuro della leadership Usa è uno dei temi centrali dei tre studi. I quali convergono su due punti fondamentali: che la leadership Usa rimane necessaria, ma che essa va non solo “rinnovata” ma anche “ripensata”, come sottolinea in particolare il rapporto di Chatham House. I limiti della potenza americana, già palesi, sono stati ulteriormente messi a nudo dalla crisi economico-finanziaria. Solo un nuovo tipo di leadership americana, secondo tutti e tre gli studi, può rilanciare la cooperazione politica e strategica con gli alleati, a cominciare da quelli europei.
Le analisi dei tre studi concordano anche sulla previsione che il primato americano, soprattutto in ambito militare, non sarà minacciato a breve da nessun altro paese o combinazione di paesi. Analoga la comunanza di vedute sulle tendenze evolutive di fondo del sistema internazionale: l’ascesa di nuovi attori e soggetti, in particolare in Asia, e la conseguente riduzione del peso relativo degli Stati Uniti. Lo studio della Rand sostiene che la transizione verso un sistema internazionale “multipolare” è la premessa stessa su cui ripensare la leadership Usa e il contesto entro il quale rilanciare i rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Di parere leggermente diverso è il rapporto conclusivo del Washington Nato Project, il quale sottolinea come l’Occidente costituisca ancora il centro gravitazionale della politica internazionale, pur riconoscendo che solo attraverso una più stretta collaborazione tra Stati Uniti ed Europa tale posizione può essere conservata.
Il Washington Nato Project avanza molte proposte specifiche riguardanti il futuro della Nato, ma la più ambiziosa è quella di un nuovo accordo Atlantico (“Atlantic Compact”), che, facendo tesoro dell’“acquis atlantico” accumulato dal secondo dopoguerra in poi, ma guardando anche oltre, ripensi il ruolo dell’Occidente in un mondo sempre più plurale e globale. Centrale a questo ripensamento, viene sottolineato, è la definizione di una nuova cornice dei rapporti transatlantici entro la quale l’Unione Europea, oltre che i singoli governi nazionali, si ponga come interlocutore diretto degli Stati Uniti per il mantenimento della sicurezza e della pace mondiali.
Le priorità strategiche
Il riconoscimento dei limiti della potenza americana e l’enfasi posta su di un approccio più multilaterale alla risoluzione delle maggiori crisi internazionali caratterizzano anche la discussione delle questioni strategiche prioritarie, così come l’individuazione degli strumenti per affrontarle. A questo proposito, forte è la sottolineatura del bisogno di un approccio nuovo al Medio Oriente, di cui si invita a cogliere la complessità e la diversità, oltre che l’intreccio delle varie questioni aperte, dalla minaccia nucleare iraniana al conflitto mai risolto tra israeliani e i palestinesi, dalla guerra in Iraq a quella in Afghanistan. Il rapporto di Chatham House invita il governo Usa a “comprendere meglio gli oppositori” dell’America, e a “sostenere con più forza” i suoi alleati, ammettendo che sotto l’amministrazione Bush gli Stati Uniti sono diventati nel Medio Oriente una “fonte di instabilità” piuttosto che di pace.
Sia il rapporto del Washington Nato Project sia quello della Rand, poi, invitano ad affrontare la questione della stabilizzazione dell’Afghanistan, per entrambi la priorità più urgente, ricorrendo ad un coinvolgimento diretto di soggetti terzi e attraverso un coordinamento più stretto tra le organizzazioni internazionali presenti sul campo. Se il Washington Nato Project insiste sul legame stretto tra Afghanistan e Pakistan, considerati come parte di un’unica questione strategica, il rapporto della Rand raccomanda la ricerca della cooperazione attiva di Cina ed India, mentre invita a distinguere tra la minaccia posta da Al Qaeda, che va contrastata senza compromessi, e la sfida posta dalla resistenza dei talebani, che può essere neutralizzata ricorrendo al dialogo e al coinvolgimento di alcuni dei gruppi tribali.
Istituzioni più inclusive e rappresentative
Un elemento degno di particolare nota, infine, poiché di nuovo comune, anche se in gradi diversi, a tutti e tre gli studi è l’inserimento tra le priorità strategiche di una riforma delle maggiori istituzioni internazionali che le renda maggiormente rappresentative dei nuovi equilibri di potere mondiali. Se il Washington Nato Project enfatizza l’importanza di nuove regole per la finanza e l’economia internazionali come condizione per il superamento della crisi attuale e il rilancio dell’Occidente come motore propulsivo dello sviluppo, gli studi della Rand e di Chatham House allargano la prospettiva alla cooperazione nel campo della pace e della sicurezza – la riforma e il potenziamento dell’Onu – e a quello del controllo degli armamenti e della collaborazione in campo energetico e climatico. Una maggior inclusività delle organizzazioni internazionali esistenti e la creazione di nuove sono una condizione essenziale, secondo i tre studi, per consentire a Stati Uniti ed Europa di continuare a ricoprire un ruolo centrale, se non di guida, nella transizione verso un sistema internazionale non più unipolare.
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