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Stati Uniti

Obama e la spada di Damocle delle elezioni di metà mandato

17 Set 2010 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

A poco più di un anno e mezzo dall’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, il cammino del partito democratico appare in salita. I sondaggi più recenti danno i repubblicani in netto vantaggio (con un distacco in alcuni casi di sette punti). Questo divario di consenso potrebbe tradursi in un nuovo equilibrio all’interno del Congresso dopo le elezioni di metà mandato che si terranno il prossimo 2 novembre.

Radicalizzazione
In numerose primarie del partito repubblicano hanno prevalso candidati ultraconservatori del ‘tea party’, un movimento populistico di protesta nato nel 2009, temuto da molti anche all’interno dell’establishment repubblicano, ma che pare difficile contenere. Ciò potrebbe alla fine favorire i democratici: gli elettori ‘indipendenti’, delusi dall’amministrazione Obama, che accusano di un interventismo federale tanto eccessivo quanto inefficace, potrebbero infatti dare nuovamente il loro voto ai democratici, scegliendo il male minore.

In ogni caso, appare probabile che almeno una delle due camere sia conquistata dai repubblicani. Ci si interroga quindi su come cambierebbero, in questa eventualità (e a maggior ragione se i democratici perdessero il controllo sia del Senato che della Camera dei rappresentanti), il programma e l’azione politica dell’amministrazione Obama nella seconda metà del mandato presidenziale.

I timori che l’amministrazione Obama possa incontrare crescenti difficoltà nel caso di un cambio degli equilibri politici interni al Congresso sono più che fondati. Anche se molto dipenderà dalle caratteristiche specifiche del ‘governo diviso’ che emergerà dalle elezioni di novembre, già ora è possibile fare alcune riflessioni.

Il Congresso è già bloccato
L’amministrazione è già in difficoltà a far passare i propri provvedimenti al Congresso. Dopo novembre questa difficoltà non potrà che accentuarsi. Pur disponendo di un’ampia maggioranza e un forte mandato popolare grazie alla netta vittoria di Obama alle presidenziali del 2008, l’amministrazione non ha avuto vita facile. Un esempio è il pacchetto di misure contro il cambiamento climatico che si sono infrante – almeno per ora – contro la forte resistenza del Congresso: le proposte di Obama, che spingevano verso un nuovo quadro normativo di riferimento, anche attraverso nuovi criteri ambientali sostenuti da precisi vincoli legali, sono stati bloccati dagli “interessi speciali”, a partire da quelli dell’industria, largamente rappresentati in Congresso.

La riforma sanitaria è stata certo un risultato storico, ma, nonostante fosse un cavallo di battaglia del partito democratico da decenni, anche in questo caso la dialettica interna è stata complessa. La legge che è stata alla fine approvata non senza defezioni e dopo mesi di incerta discussione, risponde solo in parte alle esigenze di riforma che l’avevano ispirata.

Analisti vicini al partito democratico ammettono inoltre che sarà pressoché impossibile per il prossimo Congresso passare riforme strutturali in materia fiscale ed energetica anche se i democratici mantenessero la maggioranza. Il Partito Repubblicano, da parte sua, ha fatto durante i primi anni di presidenza Obama un ostruzionismo ad oltranza sulla maggior parte della legislazione, rafforzando l’impressione che, anche dopo l’uscita di scena di Bush, la polarizzazione sia destinata a rimanere un dato costante del contesto partitico Usa.

I primi diciotto mesi della presidenza Obama hanno infatti evidenziato un problema di fondo che pare destinato a rimanere irrisolto: l’incapacità crescente dei vari poteri dello stato a fare sistema, se non in situazioni di emergenza o percepite come tali.

Il Congresso ha dato prova di unità in momenti in cui erano in gioco vitali interessi nazionali, approvando ad esempio ingenti misure di stimolo all’economia nel febbraio 2009, nel pieno della crisi economica e finanziaria. Si è anche unito nel fronteggiare alcune emergenze internazionali, come l’Iran o l’Afghanistan. Ma le divisioni sono prevalse quando si è trattato di definire strategie e politiche di più lungo termine.

Divisioni interne e tentazioni isolazioniste
Una seconda riflessione riguarda l’evoluzione politica dei due maggiori partiti. Non è raro che alle elezioni di metà mandato gli equilibri in congresso cambino in senso sfavorevole all’amministrazione in carica. La luna di miele post-elezione presidenziale si interruppe anche per Clinton nel 1994, così come per Bush nel 2006 durante il suo secondo mandato. Ma oggi ci sono tensioni evidenti all’interno dello stesso partito democratico tra l’amministrazione e i membri democratici del Congresso, nonché tra la dirigenza del partito e la base.

Già è iniziato un gioco allo scaricabarile che ha dell’autolesionista. I democratici in cerca di rielezione o per la prima volta candidati lamentano che, assorbito dal suo compito di ‘amministratore’, il presidente non stia facendo abbastanza per sostenere politicamente il partito nella competizione elettorale. L’amministrazione è inoltre accusata, anche dall’interno del partito democratico, di non avere affrontato tempestivamente – cioè in tempi coerenti con il ciclo elettorale – il problema della disoccupazione, su cui si giocherà in gran parte la partita del consenso popolare. Infine, si rimprovera all’amministrazione di essere insensibile agli umori del pubblico americano che vorrebbe un ritiro certo dall’Afghanistan dopo il 2011 e chiede che gli sforzi e le risorse si concentrino nella risoluzione delle emergenze interne, come quella ambientale provocata dalla fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico.

Dopo la consultazione di novembre, svaporato il clima elettorale, è probabile che alcune di queste tensioni si attenuino. Inoltre, se Obama deciderà di ricandidarsi, come per ora si dà per scontato, i democratici si unirebbero di nuovo in vista della sua rielezione nel 2012. Ma il rapporto tra amministrazione e i leader democratici al Congresso rimarrà fortemente dialettico, soprattutto se, come sembra, tra gli eletti a novembre l’ala meno moderata dei democratici dovessere essere maggiormente rappresentata che ora.

In politica estera l’amministrazione si è mossa sull’assunto che, quando sono in gioco problemi di vitale interesse nazionale, un eventuale mancato appoggio di una fetta dei democratici sarebbe stato compensato dai repubblicani più disposti a una convergenza bipartisan in nome della sicurezza nazionale. Questo resta vero in generale, ma sono emersi al contempo segnali preoccupanti di un’evoluzione populista ed isolazionista di segmenti del partito repubblicano. Nella ricerca affannosa del consenso popolare, vari leader repubblicani hanno optato per una critica frontale alla politica estera del governo, accusandola di essere troppo debole su alcuni fronti – come nel caso della mano tesa all’Iran – e troppo interventista e dispendiosa in altri.

È difficile al momento prevedere le dimensioni e l’esito di questa evoluzione in seno al partito repubblicano, ma le conseguenze non vanno sottovalutate. Ne sono una dimostrazione, fra l’altro, le difficoltà emerse nel processo di ratifica del nuovo trattato sulla riduzione degli armamenti strategici (‘New Start’) firmato da Obama e dal presidente russo Dmitri Medvedev lo scorso aprile. Nonostante l’amministrazione abbia ottenuto l’appoggio di figure storiche del campo conservatore, come Henry Kissinger, nonché quello della stragrande maggioranza dell’establishment militare e della sicurezza nazionale, il dibattito al Senato e in altri contesti istituzionali è stato particolarmente politicizzato e polarizzato. Repubblicani populisti, come l’ex candidato mormone alle presidenziali del 2008 Mitt Romney, hanno accusato l’amministrazione di mettere a repentaglio la preponderanza militare Usa con pericolose e gratuite concessioni ai russi. La ratifica del trattato resta possibile, ma il clima in cui si sta svolgendo la sua discussione non è certo di buon auspicio per il futuro della collaborazione in politica estera tra l’amministrazione e il partito repubblicano.

Crescenti vincoli interni
L’amministrazione si è mostrata fortemente consapevole, più di ogni altra istituzione, dei vincoli cui è sottoposta la proiezione internazionale del paese a causa di alcune debolezze strutturali interne.

Nella nuova ‘strategia della sicurezza nazionale’ pubblicata a maggio, la Casa Bianca ha esplicitato, mai come prima nella storia moderna degli Stati Uniti, la stretta interdipendenza tra la prosperità economica interna e la capacità del paese di esercitare un’efficace leadership internazionale. Il Segretario di Stato Hillary Clinton, in un discorso recente al Council on Foreign Relations, si è spinta oltre, sottolineando come il debito stratosferico accumulato dal governo costituisca di per sé una minaccia per la sicurezza nazionale. Quale che sia il verdetto di novembre, l’amministrazione dovrà muoversi nei prossimi anni in un contesto di ristrettezza finanziaria e sarà dunque oggettivamente limitata nella sua capacità di azione. Questo è un dato preoccupante che sollecita in America, ma anche in Europa, una seria riflessione.

Le difficoltà economiche degli Stati Uniti rimettono al centro del dibattito l’importanza delle alleanze e delle istituzioni internazionali, e la connessa questione della ripartizione degli oneri e delle responsabilità. Questa stessa dinamica dovrebbe spingere gli Usa, come in parte già avvenuto negli ultimi due anni, ad un rapporto costruttivo con le potenze emergenti (a cominciare dalla Cina, che Washington vuole ora incoraggiare a un maggior impegno internazionale, anche in aree inedite come il sostegno allo sviluppo). I vincoli finanziari rendono improbabili nuovi interventi militari – una fonte di profitto per alcuni settori dell’industria, ma un salasso per le casse del governo.

È questo il filo sottile su cui l’amministrazione Obama dovrà cercare di camminare senza perdere l’equilibrio: fare dell’America una “superpotenza frugale” (frugal superpower) come l’ha definita Michael Mandelbaum in un articolo recente. Un’America, cioè, capace di autoriformarsi, smettendo di vivere al di sopra dei suoi mezzi, ma non meno impegnata nella gestione degli affari internazionali. Quale che sia l’esito delle elezioni di novembre, sarà questa la sfida che Obama dovrà affrontare in politica estera nei prossimi due anni, anche in vista delle presidenziali del 2012.

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Vedi anche:

G. Gramaglia: Obama tiene l’Europa, ma perde la Turchia

R. Matarazzo: Italiani tifano Obama, ma hanno dubbi

M. Mandelbaum: A Cash-Strapped US Faces Diminished Political Clout