Coalizione anti-califfo senza strategia
L’autoproclamazione dello Stato islamico (Is) fra Siria nordorientale e Iraq occidentale sta costringendo Arabia Saudita e Qatar a un’imbarazzante piroetta, mentre il presidente statunitense Barack Obama non può che riportare Washington in Medio Oriente, pur non avendo una chiara strategia politico-militare.
La minaccia di Is argina i dissidi che nei mesi precedenti hanno attraversato il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), potrebbe accelerare il disgelo fra sauditi e iraniani, crea nuovi problemi alla Turchia, fa crescere la tensione in Libano e Giordania. E c’è chi, come il feldmaresciallo e ora presidente Abdel Fatth Al-Sisi fissa tra le priorità dell’Egitto la lotta ai jihadisti in Sinai e al confine con la Libia, mentre approfitta del sentimento anti-Is per schiacciare ulteriormente la Fratellanza musulmana.
Curdi, la paura turca
La riunione arabo-americana di Jedda dell’11 settembre ha concordato su un solo punto: la necessità di contrastare Is. Oltre alle promesse di rito sugli aiuti umanitari, il comunicato finale siglato dai ministri degli esteri di Ccg, Egitto, Iraq, Libano, Giordania (più il Segretario di stato Usa John Kerry) recita che l’impegno anti-Is “potrebbe condurre a una campagna militare coordinata”, conclusioni ribadite alla conferenza di Parigi.
La Turchia, è riluttante a partecipare a operazioni militari sul confine siro-iracheno; Ankara esporta direttamente il petrolio del Kurdistan tramite l’oleodotto di Ceyhan. La paura turca, insieme al possibile armamento dei curdi del Pkk, è che, qualora l’Is venisse respinto, il governo regionale curdo iracheno cercherebbe l’indipendenza. Potrebbe farlo attraverso un referendum, oppure imbracciando le armi fornite proprio in chiave anti-Is. Le questione curda non è l’unica incognita.
Se la “Coalizione Obama” decidesse, come annunciato, di bombardare anche il suolo siriano senza il nulla osta del regime di Damasco, metterebbe in ulteriore difficoltà il Libano: gli Hezbollah combattono sia in Siria che in Iraq e il salafismo si fa strada in frange della comunità sunnita.
L’esercito libanese è già impegnato a respingere Is e Jabhat Al-Nusra nella valle della Bekaa, verso la Siria. Al di là del confine orientale giordano, proliferano le milizie jihadiste: Amman teme che il jihad seduca i molti profughi ospitati, nonché i giovani disoccupati delle aree più emarginate, come Maan.
Frankenstein prodotti in casa
Fino a pochi mesi fa le monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in primis, speravano di indebolire il regime siriano e il governo iracheno, filo-iraniani, sostenendo le formazioni jihadiste presenti nell’opposizione a Bashar al-Asad e dentro l’insorgenza sunnita in Iraq (sprigionatasi dalla regione frontaliera di Al-Anbar), sia in maniera diretta che attraverso finanziatori privati.
La trasformazione di Isis in Stato islamico, dunque in un’entità che si dichiara statuale, spaventa però le monarchie del Golfo. Alcuni cittadini arabi andati a combattere all’estero potrebbero tornare in patria. In più, Arabia Saudita e Qatar guardano con apprensione alla crescente autonomia guadagnata da Is, che ora si autofinanzia con il racket dei rapimenti e la vendita del petrolio.
Paradossalmente, il contrasto dello Stato islamico è oggi l’obiettivo su cui convergono Arabia Saudita e Iran. L’incalzare della minaccia terroristica sembra aver velocizzato la détente fra le due rive del Golfo. Il ministro degli esteri iraniano e il collega saudita si sono incontrati a New York, dichiarando di voler “aprire una nuova pagina” in tema di cooperazione per la sicurezza regionale; però, la decisione di Riyadh di addestrare sul suo territorio i ribelli siriani mette nuovi ostacoli su questo sentiero.
Guerra fredda intra-sunnita
La Libia (come già l’Egitto) sta divenendo il nuovo campo di battaglia intra-sunnita. Qui gli Emirati Arabi Unitit e il Cairo sono in prima linea, insieme ai sauditi e contro il Qatar, accusato dal premier libico Al-Thinni di aver inviato armi alle milizie islamiste di Tripoli. Secondo quanto riportato da Al-Jazeera, Egitto e Libia avrebbero siglato un patto militare quinquennale, in cui si impegnano a sostenersi in caso di “minaccia e aggressione armata diretta o indiretta”.
In visita al Cairo, Kerry ha nuovamente promesso all’aviazione egiziana elicotteri da combattimento, utili nella lotta alle cellule terroristiche che si muovono (con armi) tra il deserto libico-egiziano e la penisola del Sinai.
Questa è la nuova rotta del jihad, oltre che dell’immigrazione clandestina, uno spazio fortemente interdipendente, a sud, con l’Africa subsahariana e con il Levante arabo a est.
La campagna di repressione della Fratellanza musulmana condotta da Al-Sisi in Egitto, che si espande nella Cirenaica libica stringendo alleanze locali (Khalifa Haftar) e regionali (Emirati arabi uniti, autori di raid confermati da Washington) sovrappone pericolosamente, nella retorica e nei fatti, la lotta a Is e ai jihadisti con la battaglia politica anti-Fratelli.
Non sappiamo se la clandestinità politica spingerà la Fratellanza alla radicalizzazione violenta. Di certo, la nascita di Stato islamico segna la seconda fase delle “primavere arabe”, dove le forze militari della restaurazione possono chiudere l’arena politica, talvolta strumentalmente, facilitando così l’involuzione autoritaria delle transizioni.
Per elaborare un’efficace strategia anti-Is serve innanzitutto un progetto – per ora assente – per il dopo. Evocare, come ha fatto Obama, le precedenti operazioni Usa in Yemen e Somalia non pare, però, un viatico per il successo.
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