Futuro immigrazione Ue: questione di coraggio
L’ultimo tentativo di un’Europa incagliata tra crisi d’identità e cupio dissolvi di avviare una riflessione comune in vista del vertice di Roma del 25 marzo è targato Jean-Claude Juncker.
“Con il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma è giunto il momento per un’Europa unita a 27 di definire una visione per il futuro. È l’ora della leadership, dell’unità e della volontà comune” ha chiosato durante la presentazione del Libro Bianco sul Futuro dell’Europa il presidente della Commissione europea, lanciando la palla ai 27 capi di Stato o di governo attesi a Roma il 25 marzo per definire ruolo e prospettive dell’Unione dopo lo shock della Brexit, la grande crisi migratoria e la rimonta dilagante di protezionismi e nazionalismi.
L’immigrazione nel Libro Bianco sul futuro dell’Europa
In Europa pretendere azioni concrete sull’immigrazione può costare l’isolamento politico. E questo lo sa bene chi ha scritto il Libro Bianco. Un testo che nomina la parola immigrazione solo nove volte, e che dal punto di vista sia politico che programmatico ricorda proprio quanto questa continui a essere l’anello debole della strategia europea che ambirebbe a guidare i 27 fino alla nuova legislatura del 2019.
Che la faccenda stia diventando di giorno in giorno più complicata lo dimostrano le esternazioni del commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, a cui è spettato, soltanto un giorno, dopo la diffusione del Libro Bianco, per ribadire che senza solidarietà non può esserci alcuna condivisione di responsabilità e che non spetta agli Stati membri scegliere quali misure intendano mettere in atto per gestire i flussi.
Dichiarazione che mette a nudo la riluttanza della DG Affari Interni verso ipotesi volte a smantellare quanto faticosamente avviato negli ultimi due anni in ambito immigrazione: approccio hotspot, accordi di partenariato nei Paesi terzi, ricollocamento, re-insediamento, rafforzamento del controllo delle frontiere esterne, riforma del sistema d’asilo e lotta ai trafficanti.
Temi su cui sin dal lancio dell’agenda europea sull’immigrazione nel 2015, le cancellerie europee continuano a ricattarsi, litigare e negoziare approdando solo di rado a soluzione realizzabili.
La verità di fondo è che, oggi, solo una manciata di Paesi, tra cui l’Italia, continua acredere al burdensharing dell’accoglienza dei migranti. Nemmeno la comunanza di intenti tra il presidente della Commissione europea, il commissario all’immigrazione Avramopoulos e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Federica Mogherini (espressa in tutta la sua potenza al Vertice di Valletta dello scorso febbraio) è valsa per convincere sull’unitarietà delle posizioni in seno al Consiglio e sulla bontà del cammino avviato.
È anche per questo che, a due anni dal lancio dell’agenda immigrazione, la dimensione interna del piano caratterizzata dalla centralità di dispositivi umanitari, come il ricollocamento e il reinsediamento, è andata progressivamente virando verso una dimensione esterna marcatamente securitaria e contenitiva.
Il principio di base non è più gestire le immigrazioni, ma contenerle e scoraggiarle. È questo l’unico modo per garantire convergenza in seno a un Consiglio terrorizzato dagli appuntamenti elettorali attesi in Olanda, Francia e Germania.
Gli esiti dubbi della strategia della realpolitik e dei partenariati su misura
In questa prospettiva, la strategia emersa dal Consiglio di Valletta formalizza il cambio di rotta avviato nel 2016, quando buttato alle spalle il coraggioso cambio di passo tedesco del wirschaffendas, anche il sognante “ce la faremo” della cancelliera Angela Merkel ha dovuto capitolare nel nome della realpolitik.
Per questo, a tempo di record e in piena unitarietà, durante il 2016, i 27 hanno potenziato le risorse di Frontex, inaugurato una nuova guardia costiera europea e rafforzato l’assistenza finanziaria e operativa per gli Stati membri più esposti.
In questo quadro, mentre il controverso accordo fra Unione e Turchia cominciava a indebolire la rotta balcanica che aveva portato più di 800 mila rifugiati in Europa, i 27 hanno creduto di replicare quel modello in Libia, il buco nero da cui solo nel 2016 sono partiti più di 181 mila migranti con destinazione Italia.
Tuttavia, gli esiti dubbi di questa strategia hanno messo a nudo per l’ennesima volta l’inanità politica dell’Unione. Nel vuoto di potere seguito al rovesciamento di Gheddafi, l’Unione ha faticato a trovare un partner credibile per gestire la situazione sul terreno. Di conseguenza il traffico di migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana è continuato.
Anche se la crisi dei rifugiati siriani ha avuto maggiore visibilità, per l’Unione la maggiore sfida nel lungo periodo è rappresentata dai flussi di migranti dall’Africa. Oltre il 40% dei 300 milioni di africani tra i 15 ei 30 anni sono Neet, “Not in education nor in employment”. Più di 300 milioni di africani vivono in assoluta povertà, con un reddito inferiore a 30 euro al mese. Dati acuiti dalle proiezioni demografiche delle Nazioni Unite, che per il 2050 prevedono una crescita della popolazione africana dal miliardo di abitanti odierno, a più di 2,4 miliardi di persone.
Rispetto a dati di questo tipo è evidente che il problema non sta solo nelle centinaia di migliaia di cittadini africani intenzionati a emigrare irregolarmente verso l’Europa, ma nell’assenza di crescita economica, stabilità istituzionale e aspettativa di vita che alimenta l’emigrazione dai Paesi di provenienza.
L’approccio contenitivo-difensivo del piano della Valletta
Eppure, rispetto a queste criticità,il piano licenziato alla Valletta sulla scia del Partnership Framework di giugno 2016 sembra andare fuori pista.
I partenariati “su misura” con i principali Paesi di origine e di transito dei migranti, immaginati per ridurre il numero di morti nel Mediterraneo, aumentare i ritorni, consentire ai migranti di rimanere vicino casa evitando così viaggi pericolosi, poggiano su una strategia totalmente improntata al do ut des: aiuti allo sviluppo utilizzati come leva o incentivo alla cooperazione nella gestione delle migrazioni irregolari e alla stabilizzazione dei quadri politico-istituzionali.
La forte enfasi del piano sull’utilizzo strategico di tutto l’arsenale delle politiche con i Paesi terzi dall’istruzione e ricerca, al commercio, all’azione umanitaria come leverage per la collaborazione dei Paesi terzi la dice lunga sull’essenza degli obiettivi di breve periodo dei 27: fermare la rotta centro-mediterranea e bloccare le migrazioni lì dove cominciano.
Peccato che nella lunga durata questo piano non convinca. L’Unione avrà sempre interessi strategici in Africa. Una delimitazione delle priorità strategiche e geopolitiche nel continente è necessaria, ma una subordinazione di tutte le aree di azione ad unico obiettivo e per di più a breve durata, è, come ha argomentato Carnegie Europe un’opzione irrealistica e pericolosa.
L’assistenza umanitaria non può essere ipotecata alla collaborazione nella gestione delle migrazioni. Per di più, il piano fa accenno in modo piuttosto fumoso al nodo che risolverebbe parte dei flussi irregolari africani: l’apertura di canali legali per le migrazioni di lavoro. Tema accennato senza fare alcun riferimento al programma di azione che s’intende intraprendere.
Allo stesso modo il piano pare dimenticare l’incidenza dei flussi di rifugiati nella mobilità africana. Limitandosi a ribadire “la determinazione ad agire nel pieno rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e dei valori europei” le conclusioni licenziate alla Valletta non nominano neanche una volta parole come protezione o rifugiati, chiudendo gli occhi sul fatto che i Paesi dell’Africa sub-sahariana accolgono il 26% dei 65.3 milioni dei rifugiati mondiali a fronte del 6% ospitato in Europa.
Il prossimo Consiglio di Roma punterà i riflettori su un’Europa che mai come oggi appare confusa e lontana dai suoi principi fondatori. Se tra le ipotesi lanciate dal libro bianco di Juncker dovesse prevalere quella “dell’avanti così” sul fronte immigrazione l’approccio economico-centrico legittimato alla Valletta potrebbe portare al collasso della gestione dei flussi e peggio ancora alla marginalizzazione di molti di quei diritti che l’Europa si è sempre fregiata di tutelare.
Queste lacune possono essere sanate solo sostituendo l’approccio contenitivo-difensivo con misure concrete e di lunga durata utili a gestire meglio le migrazioni forzate, siano esse di origini economiche o umanitarie.
Da anni, le azioni da mettere in atto non sono un mistero: aprire canali per la migrazione legale, agevolare le politiche per i visti, offrire protezione a chi fugge da persecuzioni, potenziando sia la mai decollata politica del reinsediamento sia sostenendo le organizzazioni che sostengono l’apertura di corridoi umanitari. Banalmente solo una questione di coraggio.