Gran Bretagna: alle urne nel segno della Brexit con tante incognite
Elettori capricciosi, un sistema bipartitico che sembra segnare il passo e naturalmente il terremoto Brexit, che ha scardinato tutte le convenzioni della Gran Bretagna. Ce n’è abbastanza per rendere le elezioni del 12 dicembre tra le più imprevedibili, e cariche di conseguenze, da decenni a questa parte.
Con una frequenza inusuale per un Paese un tempo modello di stabilità politica, i cittadini del Regno Unito sono chiamati alle urne per la terza volta in quattro anni, la quarta se si considera il referendum sulla Brexit del 2016. Devono scegliere tra la “Brexit subito” del primo ministro conservatore Boris Johnson, il favorito, e il secondo referendum promesso, dopo lunghi tentennamenti, dal segretario laburista Jeremy Corbyn.
Le incognite sono molte. Perfino la data del voto è un ulteriore, piccolo elemento d’incertezza: è la prima elezione in Gran Bretagna nel mese di dicembre da quasi un secolo, precisamente dal 1923, e potrebbe influire sulla partecipazione di anziani e studenti universitari.
‘Swing voters’
I britannici sono diventati, sembrerebbe, un popolo di ‘swing voters’, elettori che oscillano tra i partiti senza particolari vincoli di fedeltà. Secondo un’analisi del British Election Study, nelle ultime tre elezioni politiche (2010, 2015 e 2017), quasi la metà dell’elettorato ha votato per partiti diversi rispetto alla volta precedente. In particolare, alle elezioni del 2015, circa il 43% degli elettori ha dato il proprio voto a un partito diverso rispetto alle elezioni precedenti; nel 2017, la percentuale è stata del 33%. Una conseguenza di quelli che il British Election Study definisce “shock elettorali”, come la crisi finanziaria o la crisi dell’immigrazione.
E come, soprattutto, la Brexit, piombata come un macigno su quest’elettorato volubile e disilluso dalla classe politica. Oggi in Gran Bretagna è il tema identitario par excellence, che s’intreccia e spesso surclassa le alleanze di partito. La tradizionale distinzione Tory/Labour, legata tanto alle ideologie quanto alla classe sociale, è tramontata. Non a caso i Tory vanno alla caccia dei voti del cosiddetto ‘Workington Man’, l’elettore tipo nel Nord Inghilterra che tradizionalmente vota Labour ma che al referendum del 2016 si è schierato per la Brexit.
Secondo l’identikit del think tank di destra Onward, che ha coniato l’espressione, questo elettore è provato dalla crisi finanziaria, contrario all’immigrazione, socialmente conservatore. Se Johnson riuscirà a convincere il ‘Workington Man’ e a sottrarre voti a Corbyn nella cintura rossa laburista, probabilmente otterrà la vittoria.
Fine (o ritorno) del bipartitismo?
Negli ultimi 15 anni, come tendenza generale, la frammentazione politica in Gran Bretagna è aumentata. Alle elezioni del 2005, le ultime vinte da Tony Blair, i tre partiti maggiori – Labour, Tory e liberal-democratici – si sono accaparrati quasi il 90% dei voti. Dieci anni dopo, nel 2015, la percentuale è scesa al 75%, con lo Ukip, l’ex partito di Nigel Farage, salito a un inatteso 12,6%, e il Partito Nazionalista Scozzese al 4,7%. La tendenza è stata però invertita al voto di due anni fa, quando i tre partiti principali hanno di nuovo conquistato quasi il 90%. Cosa attendersi dunque?
Le elezioni sono partite come una gara a quattro: conservatori e laburisti minacciati dal Brexit Party, il nuovo partito di Farage, vittorioso alle elezioni europee di maggio, e dai liberal-democratici, che hanno trovato una nuova identità elettorale presentandosi come l’unico partito che vuole bloccare la Brexit.
Ma rischiano di finire come una gara tra i due partiti maggiori. Il Brexit Party ha annunciato che non presenterà candidati nei 317 seggi vinti dai Tory alle precedenti elezioni. E’ una mossa che potrebbe risultare decisiva per due motivi. Primo, perché evita di spaccare il voto pro-Brexit in moltissimi collegi, a tutto vantaggio dei conservatori (anche se Farage, nonostante le pressioni, ha presentato candidati in 275 collegi); e, secondo, perché offre un implicito sostegno alla politica dei Tory sulla Brexit. Farage sta tenendo un basso profilo nella campagna elettorale; e il Brexit Party ha registrato un crollo nei sondaggi a fronte di un’impennata nei conservatori.
Quanto ai Lib Dem, stentano a prendere quota sotto la nuova leader Jo Swinson. Il partito, che a lungo ha chiesto un referendum bis, adesso propone una revoca tout court dell’Articolo 50, una posizione per alcuni anti-democratica ed estrema. La Swinson ha escluso accordi di governo con Corbyn e ha siglato un patto di desistenza con altri partiti pro-Remain. Il problema è che, con il Labour ormai schierato per il secondo referendum, i Lib Dem, che non possono realisticamente aspirare alla maggioranza, sono schiacciati – per questo, stano facendo una mezza retromarcia sul referendum -. Resta la possibilità che, con una buona prestazione delle aree più fortemente europeiste, possano diventare i “kingmaker” in un Parlamento senza maggioranza.
Il fattore Scozia
C’è però un’altra incognita: la Scozia. I conservatori, che hanno perso la bravissima leader Ruth Davidson, sono dati in netto calo, in una terra che per loro è già tradizionalmente inospitale. Il Partito Nazionalista Scozzese, l’Snp, che non vuole la Brexit, è in ascesa.
Nell’eventualità di un parlamento spaccato, l’Snp potrebbe sostenere un accordo di governo con il Labour, a patto di ottenere l’agognato secondo referendum sull’indipendenza scozzese. Con conseguenze imprevedibili per il futuro della Gran Bretagna.