Abbandonare il voto all’unanimità è necessario per avere una politica estera europea
Quando si chiede perché l’Unione europea non ha un politica estera comune, ogni studente di scienze politiche che si rispetti indica rapidamente la causa nelle divisioni tra gli Stati membri. “It’s the Member States, stupid!“, è l’equivalente europeo del manifesto economico di Bill Clinton nelle elezioni presidenziali Usa del 1992. Gli Stati membri, con la loro sovranità così gelosamente protetta, gli interessi nazionali e le differenze strategiche resistono alla sovra-nazionalizzazione della politica estera. L’assenza di una politica estera comune europea si riduce, quindi, a questo aspetto.
Sono stati fatti alcuni passi in avanti negli ultimi decenni. Attraverso l’istituzione della carica dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’Ue si è dotata di istituzioni che gradualmente, talvolta in modo impercettibile, smussano le rigidità degli Stati membri, creano ponti tra questi, e forniscono strumenti politici capaci di generare azioni comuni.
Infatti, le divisioni europee in tema di politica estera oggi non sono più paralizzanti come un tempo, quando ad esempio l’Europa guardava scoppiare la guerra nei Balcani o nel 2003 restava immobilizzata dalle spaccature interne durante l’intervento americano in Iraq. Gli Stati europei non sono ancora totalmente allineati sulle grandi questioni strategiche del nostro tempo, dal rapporto con la Russia di Putin a quello con la Cina di Xi Jinping, fino all’America di Trump, ma questo non impedisce un agire comune a livello europeo.
La nostra azione e visione comune, intesa come Unione, è lontana dall’essere ascrivibile in una definizione di politica estera coerente, consistente e decisiva. Ed è all’interno dei singoli Paesi che vi è il problema.
La diagnosi è chiara. La prognosi no.
Qualcuno ritiene che sia il processo decisionale il vero problema. A differenza delle altre aree di politiche europee, l’unanimità richiesta in politica estera e di sicurezza è vista come l’ostacolo ultimo posto all’ascesa dell’Ue sulla scena globale. Negli ultimi anni, diversi attori hanno fatto propria questa osservazione. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha ripetutamente invocato la necessità di passare alla votazione a maggioranza assoluta per le questioni di politica estera e di sicurezza, un suggerimento avanzato anche durante questo periodo di presidenza della Germania al Consiglio dell’Ue. Nel suo discorso di quest’autunno al Parlamento europeo, l’Altro rappresentante Josep Borrell ha ribadito la questione, proponendo un processo graduale, introducendo la votazione a maggioranza qualificata su sanzioni, diritti umani e operazioni di pace, per poi estenderla ai dossier di maggior pressione, a livello nazionale, e sui quali si basa e si forma la cultura strategica comune. Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha rilanciato la volontà di avere votazioni a maggioranza qualificata nel campo della politica estera “almeno” su sanzioni e protezione dei diritti umani.
Ho sempre pensato che il voto maggioranza sui temi di politica estera fosse una giusta richiesta, ma non necessariamente la più urgente priorità per avere una policy più efficace. La rimozione della protezione ultima rappresentata dal diritto di veto da parte degli Stati membri con l’introduzione del voto a maggioranza potrebbe paradossalmente condurre a un rafforzamento delle posizioni nazionali in seno al Consiglio.
Inoltre, la questione spesso non riguarda il raggiungimento di una posizione comune: creare una visione univoca richiede tempo e spesso il risultato non è granché. Anzi, talvolta, è proprio pessimo. La poco chiara posizione dell’Ue in risposta all’arbitrato internazionale nel Mar cinese meridionale del 2016 ne è un triste promemoria.
Eppure, generalmente l’Unione europea si compatta, basti pensare a questioni strategiche come le sanzioni alla Russia, il supporto all’accordo sul nucleare in Iran o alla fiducia nella soluzione a due Stati in Israele-Palestina.
Il problema è quello che è successo dopo. Le infinite ore spese a redigere bozze e a negoziare conclusioni del Consiglio sono diventate più importanti del tempo dedicato dai leader a leggere, assimilare, per non parlare di attuare, quelle parole. Infatti, non appena l’inchiostro si secca su quei testi tanto accuratamente stesi, gli Stati membri si rilanciano verso la ricerca giornaliera della loro sovranità. Raramente queste posizioni comuni riescono a cambiare in modo decisivo ciò che i Paesi membri di fatto compiono nel mondo. Ancora meno frequentemente gli Stati membri agiscono in nome delle iniziative di politica estera europea concordate in sede comune. L’assenza di un’azione comune, oltre al discorso delle varie interpretazioni attorno all’idea stessa di azione comune, è chiaramente un ostacolo verso una politica estera europea genuinamente intesa.
In ogni caso, la settimana appena trascorsa ha evidenziato proprio il motivo per cui rivedere il processo decisionale è tanto importante.
Il Consiglio Affari esteri non è riuscito a trovare una linea comune sulle sanzioni contro la Bielorussia. Nonostante il profondo inasprimento subito dall’opposizione bielorussa e l’appassionato sostegno alla popolazione della Bielorussia fatto da Svetlana Tikhanovskaya al meeting con l’Alto rappresentante Borrell e i 27 ministri degli Esteri europei riuniti nel Consiglio, l’Unione ha fallito, ancora una volta, e non ha adottato le sanzioni. Questo a causa dell’opposizione di uno Stato membro: Cipro. La ragione all’origine della minaccia di veto non era un disaccordo generale sul valore della normativa o circa l’effetto delle sanzioni contro la Bielorussia. Il punto nodale, invece, era il parallelismo posto tra, da un lato, il broglio elettorale di Lukashenko e la conseguente rappresaglia violetta sui manifestanti pacifici, e dall’altro, l’atteggiamento militare della Turchia nel Mediterraneo orientale. Tralasciando i meriti e i demeriti della questione, il collegamento dei due casi voleva dire mischiare due eventi totalmente diversi ed è stato doloroso guardare per qualsiasi persona credente in un ruolo globale dell’Ue nel mondo.
Ancora peggio, il presupposto sotteso alla minaccia di veto non è stato solamente il sacrosanto diritto degli Stati membri di difendere i propri interessi di sicurezza nazionali. Ma è stata piuttosto la convinzione che qualsiasi tattica fosse legittima, compreso il negoziato esasperato su questioni di diritto e di diritti.
In questi anni, abbiamo assistito più volte al verificarsi di tali scenari, con l’immigrazione, altro punto critico, che ha prodotto altri negoziati poco edificanti per l’Ue. Ampliando lo spettro, quello che vediamo oggi in Europa, diversamente dai decenni precedenti, è sia il fatto che gli Stati sembrano quasi orgogliosi – piuttosto che imbarazzati – di ergersi contro un consenso europeo cristallizzato, sia che le potenze esterne – dalla Russia alla Cina fino agli Usa – sono più capaci di sfruttare le vulnerabilità dei Paesi membri per corrodere l’unità europea.
E così, mentre gli interessi principali di politica estera tra gli Stati membri possono effettivamente convergere e gli europei comprendono sempre più di perseguire un destino comune in un mondo travagliato, la tendenza di alcuni governi a ricorrere alla minaccia del veto, come parte di atteggiamenti nazionalisti e tattiche negoziali, potrebbero effettivamente aumentare, danneggiando l’immagine e l’azione dell’Unione nel mondo.
Niente di questo sarebbe successo se l’immunità fosse stata abbandonata, almeno, come hanno proposto von der Leyen e Borrell, in merito a sanzioni e protezione dei diritti umani. Perseguire questa direzione non distoglierà gli studenti dal puntare il dito contro le divisioni degli Stati membri in quanto causa principale della mancanza di un’effettiva politica estera comune. Ma intanto, pur non essendo il grande fine ultimo dell’Unione europea, votare a maggioranza qualificata su sanzioni e diritti umani è un punto di partenza necessario.