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Dramma ai confini Ue

Migranti: le mosse della Bielorussia mostrano la vulnerabilità europea

10 Nov 2021 - Luca Barana - Luca Barana

Le immagini dei giorni scorsi di centinaia di migranti che raggiungono la frontiera fra Bielorussia e Polonia, ampiamente riprese sui social network e dai media internazionali, costituiscono l’ultima manifestazione di uno dei principali problemi delle politiche migratorie messe faticosamente in atto dall’Unione europea: la dipendenza dai Paesi terzi per quanto riguarda la gestione dei flussi verso l’Europa.

Se il caso bielorusso è venato di tensioni geopolitiche che sfociano nell’uso strumentale dei migranti, in generale l’attuale impianto delle politiche Ue, ampiamente fondato sull’esternalizzazione del controllo delle frontiere a partner esterni, rende l’Unione più vulnerabile rispetto alle pressioni dei Paesi terzi.

Una nuova crisi
Negli ultimi mesi, il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko ha utilizzato le ansie europee in materia di migrazioni per rispondere alle sanzioni e alla crescente pressione diplomatica applicata al regime. Ha individuato una potenziale debolezza europea e pare intenzionato a sfruttarla per ottenere concessioni, o comunque per reagire all’appoggio europeo alle forze di opposizione nel paese. Da mesi, Lituania e Polonia segnalano una situazione difficile ai propri confini, denunciando come le autorità bielorusse stiano apertamente aiutando i migranti a raggiungere la frontiera.

La Bielorussia ha concesso il visto a migliaia di migranti, soprattutto dal Medio Oriente, con l’obiettivo di farli poi transitare in Europa. I numeri di questo flusso non sono paragonabili, al momento, a quelli raggiunti dagli arrivi irregolari attraverso il Mar Mediterraneo nell’ultimo decennio, ma costituiscono una sorpresa per l’Ue, che evidentemente non si aspettava l’apertura di un fronte migratorio in Europa orientale.

La risposta dei Paesi al confine europeo ha ulteriormente complicato le già precarie condizioni umanitarie in cui si trovano i migranti. La Polonia ha dichiarato settimane fa lo stato di emergenza nelle aree di confine, impedendo di fatto l’accesso ai media e alle organizzazioni della società civile. Pochi giorni fa, la Lituania si è detta pronta ad adottare una misura simile. Ha destato poi scalpore in Europa la decisione dei due Paesi di costruire delle barriere fisiche al confine con la Bielorussia per impedire il passaggio dei migranti, che si trovano così intrappolati nel mezzo di una crisi internazionale alla frontiera.

La responsabilità Ue
Al netto delle peculiarità del caso bielorusso, il fatto che l’Ue si dimostri vulnerabile alle pressioni di attori esterni in materia di migrazioni non deve sorprendere più di tanto. L’attuale situazione al confine orientale dell’Europa risente delle politiche adottate nel Mediterraneo sin dalla crisi migratoria di alcuni anni fa.

L’impossibilità di trovare delle soluzioni di solidarietà interna all’Ue per il ricollocamento dei migranti ha, da un lato, sovraccaricato ulteriormente i toni del dibattito sulle migrazioni, presentate sempre di più in chiave securitaria e come una minaccia. Dall’altro, la soluzione individuata dall’Ue è stata quella di esternalizzare per quanto possibile la gestione dei flussi migratori ad alcuni paesi di transito. Con modalità e tempi diversi, questo è accaduto con Paesi come Turchia, Niger, Libia o Marocco. Tale dinamica ha reso l’Unione vulnerabile e non è sorprendente che Lukashenko utilizzi proprio il tasto delle migrazioni per esercitare pressione.

In maniera magari meno esplicita, simili pressioni sono giunte anche su altre rotte migratorie negli ultimi due anni: si pensi alla minaccia della Turchia di sospendere l’applicazione dell’accordo sui migranti all’inizio del 2020 oppure alle tensioni fra Spagna e Marocco negli scorsi mesi, quando migliaia di migranti avevano raggiunto all’improvviso il confine spagnolo proprio quando i due Paesi erano divisi da una controversia sul territorio del Sahara Occidentale.

Business as usual?
È stato il Consiglio europeo dello scorso giugno a riconoscere, finalmente, questo elemento di vulnerabilità. Nella riunione dei capi di Stato e di governo, la migrazione è tornata al centro della discussione su richiesta dell’Italia, preoccupata dall’aumento degli arrivi nel corso del 2021. In quella sede, i leader europei hanno denunciato il tentativo dei Paesi terzi di strumentalizzare i flussi migratori. Recentemente, il linguaggio europeo si è fatto anche più duro con la Bielorussia, che “sponsorizza” le migrazioni come “uno strumento politico per destabilizzare l’Ue e i suoi Stati membri”. In generale, la risposta europea sembra sia nuovamente indirizzata al contenimento della minaccia migratoria e al rafforzamento della sicurezza alle frontiere esterne, sia tramite le politiche nazionali di Lituania e Polonia, sia attraverso il rafforzamento del ruolo di Frontex.

La crisi innescata dal regime bielorusso richiede certamente una reazione concreta da parte europea, ma il rischio è che tale logica securitaria ispiri ulteriormente le future politiche migratorie, più di quanto non lo faccia già adesso. Per di più, se tali politiche possono anche aver conseguito dei risultati in termini di riduzione dei flussi irregolari – è successo nel Mediterraneo centrale fra il 2017 e il 2019 per esempio -, esse hanno però dei costi umanitari molto pesanti.

Lo si è visto in Libia, lo stiamo notando ora al confine orientale dell’Ue. È tempo che l’Europa trovi una nuova via, depotenziando il tema delle migrazioni e rendendosi in questo modo meno vulnerabile nei confronti di partner e avversari. La posizione della Polonia, Paese che ha bloccato sinora qualsiasi soluzione europea, ma che ora si trova ad affrontare una crisi ai propri confini, rimane però una questione aperta.

Foto di copertina EPA/LEONID SCHEGLOV