Dove nasce lo stallo delle relazioni Ue-Cina
Il tema della necessità di procedere verso una migliore definizione delle relazioni tra l’Unione Europea e la Cina si è complicato in seguito alle frizioni tra Pechino e Stati Uniti, che compromettono la possibilità di risolvere autonomamente molte delle questioni aperte. Bruxelles si sta anche nascondendo dietro queste difficoltà oggettive, dimostrando l’assenza di una visione autonoma.
Tutto questo è evidente dal comunicato del Consiglio europeo straordinario di inizio ottobre, che reitera i temi già condivisi nei vertici di giugno e settembre. Infatti, quello delle relazioni Ue-Cina è l’unico capitolo in cui non sono riportati i punti fermi o gli obiettivi dell’Ue, ma i temi già riportati nei vertici bilaterali. Tre i temi citati: l’accordo Ue-Cina in materia di investimenti, la transizione cinese verso la neutralità carbonica e la situazione dei diritti umani.
Se dobbiamo dedurre che questi sono davvero diventati i nodi strategici nelle relazioni Ue-Cina, non sembra emergere nulla che porti a relazioni costruttive: nemmeno il linguaggio e il tono sono assertivi quanto quelli degli altri capitoli.
Investimenti, transizione e diritti
La volontà di arrivare a un ambizioso accordo sugli investimenti entro il 2020 nasce come un obiettivo cinese volto a stringere i legami con i settori produttivi europei negli anni di accelerazione del disaccoppiamento tra l’economia cinese e quella statunitense. Un accordo sui soli investimenti, scollegato da qualunque altro tema all’interno delle relazioni bilaterali, sarebbe già di per sé un passo indietro rispetto al nuovo formato degli accordi bilaterali dell’Unione, comprensivi di una serie di capitoli su temi non strettamente economici (come nel caso di Corea del Sud, Giappone e Vietnam). Se poi si considerano le numerose perplessità sollevate sulla qualità di un accordo costruito per rispettare una scadenza ‘politica’ funzionale più alla controparte cinese che non all’Europa, non traspare alcuna prospettiva europea.
Anche sul tema della transizione ecologica cinese, l’Unione si limita ad accogliere l’obiettivo cinese di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060, quindi a un ritmo molto più blando di quello che ci si aspettava, mentre sul tema dei diritti umani e delle libertà politiche l’Ue non esprime alcuna intenzione di mettere al centro la salvaguardia dei suoi valori anche nella relazione con la Cina e rimanda alla promessa di un dialogo bilaterale a Pechino (comprensivo di una visita in Tibet) che manca di menzioni allo Xinjiang, regione ora al centro di “indagini” su violazione dei diritti umani.
Distanze accorciate
Fino alla seconda metà del 2016 si poteva affermare che le relazioni tra l’Ue e la Cina fossero penalizzate da una divergenza interna all’Unione, tra una posizione più accomodante rispetto alla crescente presenza economica in Europa – chiamiamola posizione franco-tedesca – e quella dei Paesi europei mediterranei, soprattutto di Italia e Spagna, mentre la Cina intesseva una fitta rete di relazioni bilaterali, mantenendo un atteggiamento interlocutorio ma inconcludente con Bruxelles.
Dal 2016 la divergenza si è ridotta, in seguito a un ripensamento tedesco di poter guidare da soli una relazione privilegiata fondata sulla forza dei legami economici e commerciali, ma anche come conseguenza dei contrasti tra Pechino e Washington, che hanno incentivato i Paesi Membri a trovare una posizione comune, un maggior bilanciamento. L’Italia si inserisce proprio in questo trend: dalla firma del MoU del marzo 2019, da alcuni considerato un segnale di avvicinamento dell’Italia alla Cina, la politica estera italiana si è contraddistinta per i diversi tentativi di bilanciamento tra Pechino e Washington.
Ne sono esempi l’approccio inizialmente possibilista nei confronti delle tecnologie di quinta generazione e, in particolare, all’inclusione della multinazionale cinese Huawei nei bandi di gara nazionali, fino alla collaborazione con Pechino (ora interrotta a favore di un nuovo accordo con il partner atlantico) per la costruzione della prima stazione orbitale cinese.
In ambito tecnologico, l’Ue e i suoi Stati membri stanno affrontando un massiccio ripensamento dell’impatto della tecnologia sull’economia, la sicurezza e la democrazia. Bruxelles ha fatto della sua ricerca della “sovranità digitale” una priorità strategica fondamentale per i prossimi anni. L’elenco delle questioni di politica tecnologica dell’Ue con la Cina, tuttavia, crea la necessità di esplorare le richieste, le sfide e le opportunità del nascente rapporto tecnologico. Di tutto ciò però non vi è traccia, sebbene sotto la presidenza del Consiglio tedesco le relazioni strategiche dell’Ue con la Cina siano in cima all’agenda.
L’immagine cinese in Ue
Questo avviene in un contesto in cui l’immagine della Cina si è incrinata. L’attività di engagement di Pechino, già indebolita dagli interrogativi riguardo il rischio che i paesi riceventi degli investimenti Belt and Road cadessero in una “trappola del debito”, è stata ulteriormente erosa dalla pandemia, arrivando al punto di far riconsiderare l’approccio cinese ai partner storici, come l’Africa o il Sud-est asiatico.
Per la Cina questo rappresenta un momento di svolta. Già di per sé una novità rispetto all’atteggiamento più defilato delle leadership precedenti, da un decennio a questa parte la Cina si è basata sull’attenta proiezione di un’immagine del paese come stakeholder (inter pares, o più spesso vera e propria potenza) responsabile.
È stata tuttavia soprattutto l’immagine della Cina in Europa ad esserne maggiormente danneggiata. Gli ultimi sondaggi, ad esempio, restituiscono la percezione della Cina più negativa di tutti i tempi, con la sola eccezione dell’Italia, rimasto uno dei pochi paesi intervistati in Europa occidentale dove l’opinione positiva della Cina ha riscontrato un cambiamento minimo nell’ultimo anno. Secondo il Pew Research Centre, la percentuale di intervistati che hanno una percezione favorevole della Cina in Regno Unito, Francia, Germania e Spagna, per esempio, è calata a ritmi significativi negli ultimi vent’anni (con Londra a -42%, Parigi a -32% e Berlino e Madrid a -21% nel 2020), mentre in Italia è cresciuta di ben 11 punti percentuali.
Una tendenza che è particolarmente minacciosa per la Cina, poiché i mercati dell’Europa occidentale sono l’obiettivo finale della Belt and Road Initiative, e il paese ha più di 328 miliardi di investimenti sparsi per il continente. Le opinioni negative di partner europei cruciali come questi, quindi, vanno certamente contro gli interessi della potenza asiatica, e sembrano anzi essere immuni agli strumenti di soft power messi in campo da Pechino, come la donazione di attrezzature sanitarie al culmine della pandemia o il tentativo esplicito di usare il pilastro sanitario della Bri, per rinforzare i legami con l’Ue, che sono stati finora accolti con sospetto da molti destinatari, in primis l’Unione europea.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dalle autrici sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.