Accelerazione isolazionista della Russia: la scommessa è sopravvivere
La pubblicazione della lista dei Paesi “ostili alla Russia” – della quale per il momento fanno parte due entità estremamente diverse come gli Stati Uniti e la Repubblica Ceca – ha segnato un nuovo momento di svolta nella progressiva chiusura del Cremlino al dialogo con la comunità internazionale. Avvenuta pochi giorni dopo la parata militare del 9 maggio – una volta grande appuntamento per una sessantina di capi di Stato e di governo da tutto il mondo, e oggi un evento che Vladimir Putin ha condiviso soltanto con il presidente del Tagikistan Emomali Rakhmon – ha coinciso con la discussione, alla Duma, di una serie di proposte legislative che dovrebbero eliminare perfino la facciata di una democrazia in Russia.
Già il fatto che per l’eventuale faccia a faccia tra il presidente russo e il suo collega americano Joe Biden si parli di una destinazione neutrale come la Svizzera dimostra che si è tornati rapidamente a una situazione per molti versi analoga alla Guerra Fredda, con Mosca che si dichiara nemica dell’Europa e degli Stati Uniti, e il negoziato che verte non più sui quasi inesistenti dossier di cooperazione, ma su come non farsi del male a vicenda.
Fine del ventennio?
La trasformazione della Russia da autoritarismo in dittatura, al proprio interno, con un incapsulamento sul piano internazionale, ha subito una brusca accelerazione dopo l’avvelenamento e il successivo arresto di Alexey Navalny, che ha provocato le proteste più massicce del ventennio putiniano. Gli arresti, i licenziamenti e le persecuzioni degli oppositori, insieme alla censura dei media indipendenti e al progetto di privare praticamente qualunque attivista del diritto al voto, sono il segnale di un giro di vite che stavolta non viene controbilanciato da aperture ai “liberali di regime”.
Secondo l’ultimo sondaggio del Levada-zentr, a Mosca il partito putiniano Russia Unita prenderebbe appena il 15% dei voti, e quasi la metà degli interrogati non dichiara le sue preferenze, facendo pensare che, se ne avesse la possibilità, voterebbe per liste diverse da quelle dei partiti ufficialmente autorizzati (e quindi menzionati tra le opzioni del sondaggio). Il nome impronunciabile, quello che moscoviti e pietroburghesi come gli abitanti della Siberia e degli Urali scrivono sulla neve e sui muri, è quello di Alexey Navalny, il detenuto politico numero uno della Russia, che con il suo attacco mediatico al Cremlino ha accelerato – resta da chiedersi quanto intenzionalmente – la degenerazione del regime, costringendolo ad abbandonare le convenzioni di facciata per dedicarsi alla sopravvivenza.
Che la missione del Putin collettivo d’ora in poi sarà quella di sopravvivere appare abbastanza evidente, ma resta l’interrogativo irrisolto delle modalità di questa sopravvivenza. Il fatto che il presidente russo, nonostante la dichiarata vaccinazione contro il Covid-19, resti in isolamento da videoconferenza – la condizione per incontrarlo dal vivo continua a essere quella di 14 giorni di quarantena in una struttura del Cremlino – fa pensare ormai non soltanto a una scelta di paranoia sanitaria, ma anche al desiderio di componenti del regime di tenere il suo autore e simbolo sotto controllo.

Passaggio di potere e rottura generazionale
Più che dedicarsi a inutili speculazioni sullo stato di salute fisica e mentale del presidente russo, sarebbe necessario capire come si stanno posizionando i vari attori moscoviti rispetto a questa accelerazione totalitario-isolazionista. Il mantenimento di un “autoritarismo informativo”, con la manipolazione dei media e delle elezioni, e la stabilità economica che permette di conservare la situazione sotto controllo senza esercitare troppa violenza, non è più fattibile. L’equilibrio tra i moderati e i falchi appare alterato pesantemente a favore degli esponenti dei servizi e della magistratura, e le ricette repressive che propongono come reazione alla crisi economica e sociale difficilmente saranno risolutive.
L’altro discorso impronunciabile nel dibattito moscovita sul “bolshoy transfer”, il grande passaggio dei poteri, è che ormai tutti stanno guardando, con timore o con speranza, al dopo-Putin, nonostante le modalità di questo approdo siano per ora tutte da inventare.
In un passaggio che in buona misura è dettato da una rottura generazionale, e dal superamento della sindrome post-traumatica della sparizione dell’Unione sovietica, una parte cospicua dell’élite come della popolazione si rendono conto che un miglioramento della situazione può avvenire sulla strada di una distensione interna ed internazionale, che in questo momento di liste dei “Paesi nemici” e della caccia agli “agenti stranieri” appare impossibile perfino come argomento di discussione.
Una parte altrettanto numerosa della nomenclatura (e degli elettori) si rende altrettanto lucidamente conto che in caso di una nuova “perestroika” verrebbe espulsa come incompatibile con l’obiettivo della modernizzazione della Russia, e più che cercare di prevalere sta tentando di guadagnare tempo. Il tempo per rinviare la prima, e le risorse per rimandare il secondo sono entrambi limitati.
Foto di copertina EPA/MIKHAEL KLIMENTYEV/SPUTNIK/KREMLIN