Rischi e opportunità dell’integrazione differenziata Ue
Le integrazioni differenziate delle quali si parla oggi in Europa non sarebbero piaciute agli europeisti della prima e della seconda generazione. Anche loro arrivarono a concepire, e a praticare, forme di integrazione più avanzata per gruppi limitati di Stati membri, ma il significato era un altro e sempre funzionale a quella “ever closer Union” che sin dal Trattato di Roma indicava uno scopo immanente non per alcuni, ma per tutti i componenti della Comunità. Non a caso, se integrazioni parziali venivano progettate, i gruppi destinati a realizzarle venivano chiamati avant-garde, sulla trasparente premessa che esse aumentavano la velocità, ma al traguardo poi dovevano arrivare tutti. E infatti le porte, per gli altri, dovevano restare aperte.
L’esempio più noto, e di maggior successo, di questo vero e proprio processo a tappe dell’integrazione è offerto notoriamente dall’area Schengen, nata con un accordo fra alcuni e alla quale gli altri hanno via via aderito, sino a quando il relativo assetto è divenuto acquis communitaire. E se non tutti vi hanno preso poi (interamente) parte, lo si è dovuto non alla sua originaria parzialità, ma a quel peculiare istituto che è l’opting out da regolazioni ed assetti comuni.
In questi termini l’integrazione differenziata è stata codificata dal Trattato di Amsterdam prima, poi da quello di Nizza ed è da ultimo approdata in quello di Lisbona. È previsto che essa divenga possibile solo dopo aver constatato in Consiglio che l’opposizione di alcuni rende impossibile procedere insieme (“entro un termine ragionevole”, come leggiamo nell’articolo 20 del vigente Trattato sull’Unione). Occorre una richiesta degli Stati membri che intendono instaurarla fra loro (almeno nove) ed occorre comunque che la Commissione poi la proponga e che ci sia la luce verde sia del Consiglio sia del Parlamento. Le porte devono essere aperte e devono essere rispettate le finalità comuni, oltre che le competenze degli Stati membri non partecipanti,
Molto altro ci sarebbe da dire, specie sulle cooperazioni rafforzate relative ai temi più delicati – la sicurezza e la difesa – per le quali anche la procedura è regolata in modo più complesso. Ma limitiamoci qui a ricordare che sono proprio queste le cooperazioni rimaste sulla carta e che sono poche quelle entrate in funzione, in settori importanti e tuttavia non centrali, come la cooperazione sul “diritto applicabile in materia di divorzio e di separazione legale”, avviata con decisione del Consiglio del 12 luglio 2010. Giova altresì sottolineare che la zona euro (anche se le somiglia, e le somiglia anzi sempre di più) non è una cooperazione rafforzata. L’euro infatti è sempre stato configurato come la moneta dell’Unione, con la conseguenza che chi inizialmente non ne faceva parte, era fuori perché ancora non aveva i requisiti per entrare. Poi ad alcuni Stati è stato consentito di praticare l’opting out, la situazione è cambiata, ma – come per Schengen – non al punto di negare l’appartenenza dell’euro all’ordinamento comune.
Ecco, l’opting out ci dà già il segno, da solo, di una Unione che è cambiata, di una “ever closer integration” che è rimasta un obiettivo per qualcuno, ma non per tutti (ricordiamoci che, quando il Regno Unito ancora negoziava la propria permanenza, aveva fra le proprie richieste la scomparsa, almeno per sé, di questa formula). Abbiamo ormai difficoltà a stare insieme, le abbiamo addirittura per le divaricazioni che si sono create fra noi su temi fondamentalissimi come lo stato di diritto. E se gli esiti della Brexit hanno scoraggiato ulteriori secessioni, certo non facilitano il processo di integrazione. C’è chi pensa che lo abbia facilitato la pandemia, come dimostrerebbe il Recovery Plan “Next Generation EU”, con l’assunzione, per la prima volta, di un grosso debito comune per finanziarlo. Si è trattato di un momento, nuovo e fecondo, di solidarietà comune. Ma aspetterei a concludere che è diventato istituzione, che ha battezzato una nuova politica fiscale comune, destinata a rimanere per il futuro.
Lo assumerei piuttosto come dimostrazione dell’efficacia, certo, dei passi di ulteriore integrazione, ma come stimolo alle prospettive di integrazione più probabilmente differenziata, destinate a non piacere ai vecchi europeisti, perché condivise soltanto da chi le farà e quindi incarnate non più da avanguardie, bensì da gruppi di Stati più integrati degli altri in un sistema non più collocato su un unico asse.
Si pensava tempo addietro- e forse qualcuno ancora lo pensa- che gli assi potessero essere al massimo due in un’Unione appunto a due velocità. L’aspettativa era fondata sull’ipotesi che l’area euro, che ha già forme di integrazione più accentuata ai sensi dell’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (Tfue), potesse aggregare anche le ulteriori forme di integrazione, che apparissero utili. Ma l’aspettativa è del tutto sprovvista di realismo. Altro è stare insieme per creare nuovi meccanismi comuni per la stabilità dell’euro, altro è farlo per gestire l’immigrazione, oppure l’impegno militare, il terrorismo, o le stesse infrastrutture di rete volte a combattere il cambiamento climatico. A questi diversi riguardi emergono differenze, vere e proprie distanze, anche fra i Paesi dell’euro, che ne rendono a dir poco improbabile l’impegno comune; a parte il fatto che, in materia militare, è sin dall’origine previsto che le relative cooperazioni rafforzate coinvolgano necessariamente i soli Paesi dotati delle necessarie capacità (sia pure, anche qui, con le porte aperte a chi le potrà avere in futuro).
Ne emerge una inevitabile conseguenza: quanto più singoli Stati membri percepiranno come necessarie normazioni e decisioni comuni in specifici ambiti, tanto più potrà accadere che a condividere tale necessità siano di volta in volta Stati diversi. Col risultato di dar vita a quella “multi-cluster Europe“, che in parte – lo abbiamo visto – esiste già oggi, ma che domani potrebbe investire ambiti di governo di particolare rilievo, come quelli sopra ricordati. A quel punto, però, reggerebbe il tessuto comune? Non potrebbero crearsi distanze alla lunga laceranti?
Le risposte, certo, possono essere diverse, come sempre quando si parla del futuro. Varrà la pena tener conto del fatto che ciò che tutti condividerebbero non sarebbe soltanto il mercato comune (il che, comunque, è tutt’altro che poco), ma anche il molto che è cresciuto al di fuori di esso (dalla tutela dei dati personali al processo che sta dando vita alla Procura europea, l’Eppo). Non meno importante sarebbe se un numero sia pur limitato di Stati partecipasse a tutte le cooperazioni che dovessero nascere, divenendone una sorta di tessuto comune. E varrebbe comunque la circostanza che gli organi decisionali comuni sarebbero sempre e soltanto gli organi dell’Unione, magari con diritti di voto al proprio interno di volta in volta adattati.
Insomma, la partita è aperta davanti a noi. E sta a tutti noi decidere qual è il rischio peggiore che dobbiamo evitare: se quello di un’Unione alle prese con sfide sempre più urgenti, che non riesce però a fronteggiare perché le diversità fra i suoi Stati membri paralizzano il Consiglio europeo; oppure di un’Unione nella quale si formano cluster che raccolgono quelle sfide, organizzano risposte di sicuro più efficaci di quelle che ciascuno potrebbe dare da solo, ma facendolo mettono in tensione la cornice comune.
Chi sceglie la prima strada non ha da fare altro che affidarsi al futuro, di riunione in riunione. Chi sceglie la seconda, deve farsene promotore, trovare partner mettere in moto le procedure, che fortunatamente ci sono. Con tutti gli adattamenti del caso, di avant-garde, in questo caso, ci sarebbe ancora bisogno.
Una versione in inglese di questo testo è stata pubblicata come paper nell’ambito del progetto EU IDEA – Integration and Differentiation for Effectiveness and Accountability
EU IDEA ha ricevuto finanziamenti dal programma per la ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione europea attraverso il grant 822622.