IAI
Cara AI Ti Scrivo

Gli Usa di Biden provano a non polarizzare la situazione in Medio Oriente

17 Dic 2021 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Nella Interim National Security Strategic Guidance (Insgg) – un importante ma poco noto documento preliminare firmato dal presidente Joe Biden e sanzionato dalla Casa Bianca nell’aprile del 2021 -, sono stati identificati gli indirizzi di politica estera degli Stati Uniti per il prossimo futuro al quale tutte le agenzie ed istituzioni sono tenute a conformarsi prima dell’uscita, si crede nei primi mesi del 2022, di una vera e propria National Security Strategy.

Stante la difesa della sicurezza di Israele come il più consolidato dei pilastri, per ciò che concerne il Medio Oriente, gli Stati Uniti vireranno la loro rotta verso una maggiore equanimità nel conflitto israelo-palestinese, facendosi promotori di una “viable two-state solution” la cui proposta fattuale è, tuttavia, ancora oggi opaca.

Fra Iran e sauditi
Per ciò che concerne l’Iran, pur mantenendo un atteggiamento di cauta apertura e caldeggiando la ripresa dei negoziati riguardanti l’accordo sul nucleare (Jcpoa), gli Stati Uniti continueranno a dissuadere Teheran e i suoi alleati dal minacciare la sovranità e l’integrità dei paesi limitrofi, anche grazie alla collaborazione dei partner regionali.

Per ciò che riguarda il terrorismo invece, rimarrà fermo il contrasto alla rete di al-Qaeda nonché ai gruppi sfilacciati, residui oramai vulnerabili, legati tra loro sotto il nome di Daesh.

Nel documento, poi, la Casa Bianca ha affermato di non credere “that military force is the answer to the region’s challenges”, aggiungendo che non darà ai suoi partner della regione “a blank check to pursue policies at odds with American interests and values”. In cosa si sostanzierebbe questo? Ad esempio, nella fine del supporto americano all’offensiva guidata dall’Arabia Saudita in Yemen e al sostegno, da parte di Washington, per una soluzione multilaterale mediata dalle Nazioni Unite.

In chiave analitica, l’esecutivo di Biden vorrebbe quindi favorire un lieve ri-bilanciamento tra la potenza iraniana e saudita, impegnate al momento in negoziati in Giordania, nonché un maggior equilibrio nella politica condotta tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. L’obiettivo, data l’oggettiva complessità delle dinamiche conflittuali immanenti e degli interessi in gioco, sembrerebbe essere quello di non polarizzare (peggiorare?) ancor di più la situazione favorendo, date le circostanze, un approccio all’apparenza maggiormente imparziale.

Nel 2022, l’amministrazione destinerà alla regione oltre 7,5 miliardi di dollari in aiuti militari ed economici, più di quanto gli Stati Uniti allochino per tutte le altre aree del mondo, registrando, oltre ad Israele, il classico (e ingente) aiuto all’Egitto e alla Giordania.

In generale, uno degli obiettivi degli aiuti ai Paesi arabi è quello di mantenere la propria storica influenza facendo fronte allo stesso tempo ai persistenti problemi di governance e stabilita locali. L’auspicio è quello di evitare nuove sommosse o conflitti che, nel medio periodo, potrebbero minacciare il flebile equilibrio regionale, un’eventualità che richiederebbe presumibilmente un maggior impegno americano.

L’indirizzo economico
Per Israele, il più grande beneficiario di aiuti americani (135 miliardi di dollari) dalla Seconda Guerra Mondiale, nel 2022 giungeranno 3,3 miliardi di dollari tramite il meccanismo del Foreign Military Financing (Fmf), un prestito americano a Paesi alleati o politicamente vicini finalizzato a favorire l’acquisizione di equipaggiamenti, armi o training statunitensi.

Tale policy è ampiamente consolidata, ponendosi sulla scia dei due Memorandum of Understanding firmati nel 2006 (Amministrazione Bush) e nel 2016 (Amministrazione Obama), che sancirono – stante l’approvazione del Congresso – un pacchetto di aiuti di circa 30 e 33 miliardi di dollari lungo un arco temporale decennale.

Per dare la misura dell’importanza di questa relazione, basti pensare che nel 2022 Israele riceverà oltre il 50% della somma totale dei Foreign Military Assistance americani a cui potrebbero aggiungersi, come sanzionato dalla Public Law 113-145 del 4 agosto 2014 e dal MoU del 2016, degli aiuti “extra” in caso Israele fosse coinvolto in un conflitto su larga scala.

Gli aiuti militari saranno in linea con il passato recente anche per ciò che concerne l’Egitto, con la differenza che alcuni di questi verranno condizionati – tramite una decisione del segretario di Stato – al rispetto dei diritti umani, del rule of law e dal rilascio dei prigionieri politici. Forse è stato proprio l’avvertimento di utilizzare questa clausola a giocare un ruolo – chissà se decisivo – nella recente liberazione del dissidente egiziano Patrick Zaki.

Nei numeri, per gli aiuti dal programma Economic Support Fund si contano alcune decine di milioni di euro di sostegno alla società civile e allo sviluppo economico, mentre per quanto riguarda l’aiuto nel settore della difesa, il Paese beneficerà di 1.3 miliardi di dollari in Fmf.

La Giordania è il terzo recipiente in ordine di grandezza per quanto riguarda gli aiuti americani. Anche qui, un MoU di durata quinquennale firmato nel 2018 garantirà un totale di 6 miliardi di dollari fino al 2023. Per il 2022, sono previsti 350 milioni in aiuti militari e quasi un miliardo in aiuti economici – per lo più i cosiddetti cash transfers. In tal modo, si vuole permettere al Regno di pagare il debito estero a scadenza nell’anno corrente, di pagare i costi per l’importazione di energia-carburante, tallone d’Achille dell’economia giordana, e di gestire il milione di profughi siriani (tra registrati e non) presenti nel Paese.

A tal riguardo, dal 2012 ad oggi si stima che gli Stati Uniti abbiano donato ad Amman circa 2 miliardi di dollari per l’accoglienza dei rifugiati. Più nello specifico dal punto di vista dell’aiuto umanitario, gli Stati Uniti hanno allocato dal 2010 a Siria (13), Yemen (4) e Iraq (3), circa 20 miliardi di dollari. Una considerevole cifra in rapporto all’Unione europea, la quale ha solo da quest’anno aumentato del 60% (a 1,4 miliardi di euro) il budget per l’assistenza umanitaria, andando però a coprire un’area molto più vasta – lo European Neighborhood –  estesa dall’Ucraina, ai Balcani, al Caucaso, alla Turchia, al nord-Africa.

Per la questione palestinese, e in linea col nuovo indirizzo politico, nel budget del 2022 sono stati previsti maggiori fondi – 138 milioni di dollari- per l’Unrwa (UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees). Per ciò che riguarda la Striscia di Gaza e la Cisgiordania inoltre, la richiesta da parte dell’Amministrazione Biden è quella di tornare ai livelli del 2017, con circa 220 milioni di dollari di aiuti bilaterali totali.

Per l’Iraq, la maggior parte degli aiuti sono di assistenza militare (Fmf, 350 milioni di dollari), mentre per il supporto alla governance del Paese – ovvero sanità, riforma dell’amministrazione pubblica e sviluppo economico – gli Stati Uniti doneranno circa 150 milioni di dollari. Un terzo di questa cifra verrà poi destinato alle attività Nadr, ovvero non proliferation, anti- terrorism and de-mining related programs.

Altri Paesi, come la Tunisia (200 milioni di dollari) ed il Libano (300 milioni di dollari), beneficeranno di un minore apporto economico. Da sottolineare anche alcuni programmi regionali, spesso a guida US-AID o State Departement come il Mepi, Mer, Merc, Meppa, che parallelamente a quelli di aiuto bilaterale, alla vaccine diplomacy nella regione, alla sfida del cambiamento climatico, contribuiscono a dar vita alla diplomazia americana, il cui obiettivo è,  tra l’altro, quello di infondere risorse per fortificare la human security nella Regione, volano di sostentamento di alcune delle comunità locali e di stabilità socio-politica.

Focus in Asia
L’impostazione di Biden sembrerebbe custodire un impegno maggiormente stemperato non solo rispetto al periodo della Guerra Fredda (dottrina Eisenhower) e al “wilsonismo con gli stivali” di G.W. Bush, ma anche in relazione al pragmatismo realista di Obama.

La sensazione è che gli Stati Uniti vorranno concentrarsi sulla Cina, suo competitore esistenziale e naturale, nonché sull’Asia-Pacific region, contrastando al contempo in maniera decisa i perturbamenti derivanti dall’azione russa in Europa e curandosi del fatto che dal Medio Oriente, in definitiva, non provengano più problemi di quanti già non ve ne si possano incontrare. Con alcune eccezioni, i governi dell’area troveranno il loro più grande aiuto guardandosi allo specchio, oppure sondando prudentemente il terreno ad Est.

Foto di copertina EPA/SARAH SILBIGER / POOL