Tanti punti interrogativi sulla torta di compleanno della Nato
Il 2 e 3 dicembre prossimi i ministri degli esteri dell’Alleanza Atlantica si riuniranno a Bruxelles per discutere di questioni di grande importanza per il futuro della Nato. La discussione spazierà dagli ultimi sviluppi in Afghanistan, alla valutazione se Georgia e Ucraina siano pronte per il “Membership Action Plan” (Map), passando per la tormentata relazione Nato-Russia.
L’incontro, tuttavia, resterà di carattere prevalentemente interlocutorio in attesa del summit del prossimo aprile a Strasburgo/Kehl, quando l’alleanza aggiungerà la sessantesima candelina alla sua torta di compleanno. Sarà in quell’occasione solenne, alla presenza del nuovo presidente americano, che l’Alleanza sarà chiamata a decidere in modo sostanziale, anche se non necessariamente conclusivo, del suo futuro. Ciò che purtroppo pare attenderci tra qui e la primavera prossima, invece, è la continuazione di quella curiosa combinazione di “soul searching” e piccolo cabotaggio che ha contraddistinto l’incerta vita dell’alleanza negli ultimi anni.
Il test dell’Afghanistan
La questione afgana è indubbiamente emblematica di alcuni dei dilemmi fondamentali della Nato e in molti sostengono che in Afghanistan si gioca il futuro stesso dell’Alleanza. La riunione ministeriale di dicembre, tuttavia, difficilmente partorirà sviluppi di rilievo. Una review approfondita delle operazioni militari sarà condotta probabilmente solo a febbraio prossimo, e in ogni caso è difficile che nuovi impegni siano assunti prima dell’insediamento del nuovo presidente Usa, Barack Obama, il quale potrebbe proporre un approccio nuovo alla conduzione della missione Isaf. Anche se si dovesse raggiungere un accordo nella primavera sulla generazione di nuove forze, questo non basterebbe certo ad assicurare il successo della missione. Come puntualizzato di recente da Michele Nones, la domanda non è tanto “perché bisogna vincere” in Afghanistan quanto “cosa significa vincere”. Il problema, in altre parole, non è solo e tanto militare quanto eminentemente politico.
A questo riguardo, vari sono stati gli sviluppi degli ultimi mesi, ma l’incertezza rimane ancora grande. Il Comitato militare della Nato del 20 e 21 novembre ha ribadito che nessuna operazione militare sarà da sola in grado di offrire una risposta di lungo periodo all’instabilità dell’Afghanistan. Solo un “approccio comprensivo”, così come inizialmente tratteggiato al summit di Bucarest dell’aprile scorso, che coinvolga le varie organizzazioni internazionali presenti nel paese e investa massicce risorse civili oltreché militari può dare vita ad un nuovo Afghanistan.
Proprio perché di ricostruzione politica e non solo militare si tratta, l’investimento crescente nella formazione ed addestramento di un nuovo apparato di difesa e sicurezza dovrebbe essere sostenuto da un impegno ancora maggiore nella rinascita civile ed istituzionale del paese. Qui purtroppo varie sono le note dolenti, dalle sempre più insistenti accuse di corruzione anche ai massimi livelli del governo di Karzai, all’incapacità degli alleati di coordinare l’attività critica svolta sul campo dai Provincial Reconstruction Teams (Prt). I Prt rimangono le sole vere unità di ricostruzione, ma vengono spesso gestite con approcci e obiettivi molto diversi nonostante l’Isaf provveda loro un ombrello comune. Come ammesso da un recente rapporto del Research Service del Congresso americano, “non c’e’ un modello standard e comprovato di Prt, e molte sono dominate da forze militari invece che da esperti civili”.
L’orientamento assunto al meeting informale dei ministri della Difesa della Nato dell’ottobre scorso di ampliare il coinvolgimento della Nato nella guerra al narcotraffico, ha ulteriormente rinfocolato il dibattito sul ruolo dell’Alleanza nel paese. Per quanto tutti gli alleati condannino il legame stretto tra coltura dell’oppio e finanziamento della “resistenza”, molti in Europa temono che un’azione Nato contro i coltivatori finisca per alienare la popolazione – che da quel commercio in parte dipende – e precipitare il conflitto in una guerra vera e propria tra Isaf da una parte e il popolo afgano dall’altra. La questione se di guerra o meno si tratti, così dibattuta dall’opinione pubblica europea, poi, sembra trovare una risposta inequivoca quanto poco incoraggiante da parte americana: “non si tratta di peace-keeping. Non si tratta di stabilizzazione né di assistenza umanitaria; è una guerra”, ha affermato solo pochi giorni fa il Generale David McKiernan, che ha il doppio capello di comandante delle forze Usa in Afghanistan e di comandante dell’Isaf.
La Nato e il suo vicinato
Un’altra questione spinosa che grava sul futuro della Nato è quella del suo immediato vicinato, ed in particolare il vasto e variegato spazio post-sovietico. È ormai escluso che la riunione di dicembre si concluda con l’offerta del Map a Georgia e Ucraina. L’amministrazione Bush stessa sembra aver ripiegato sul compromesso detto del “Map without Map”: un progresso sostanziale nella cooperazione attraverso le Commissioni Nato-Georgia e Nato-Ucraina in vista di un futuro ingresso dei due paesi nell’Alleanza, senza che il Map sia formalmente attivato. Anche il raggiungimento di questo compromesso, tuttavia, non è assicurato. La Germania, ad esempio, insiste che una decisione sul Map debba comunque essere presa prima o poi e si oppone insieme alla Francia a “scorciatoie” per l’ingresso nell’Alleanza.
Forse più decisiva di ogni altra considerazione, tuttavia, rimane la situazione interna dei due paesi, che pare molto lontana da quella ideale per procedere speditamente verso la membership. In Ucraina l’instabilità politica è crescente e la posizione pro-occidentale ed atlantista del presidente Yushchenko sembra sempre più isolata. In Georgia, il contenzioso su Abkhazia e Ossezia del Sud rimane un macigno enorme sulla strada dell’adesione. A livello politico, poi, la posizione di Saakashvili si è sensibilmente deteriorata all’interno per l’esito catastrofico della guerra mentre la sua leadership pare sempre più screditata anche in Occidente, in particolare a seguito delle accuse di corruzione e le ombre crescenti sul suo ruolo nello scatenamento della crisi di agosto.
Ovviamente, la decisione su Georgia e Ucraina sarà discussa nel contesto dei difficili rapporti Nato-Russia. Senza attendere un’eventuale svolta della presidenza Obama, il governo americano sembra aver lanciato segnali di disponibilità, seppur molto timidi, a rivedere il suo atteggiamento assertivo di agosto quando Bush minacciò pesanti ritorsioni contro Mosca e auspicò una sterzata atlantista dell’Europa sull’ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato. È da escludere, tuttavia, che il prossimo incontro ministeriale della Nato decida il ripristino di relazioni “normali”, specialmente se al massimo livello, tra l’Alleanza e la Russia.
Ciò che il comunicato finale potrebbe contenere, se l’esito delle trattative di questi giorni accogliesse gli orientamenti di Francia, Germania ed Italia in particolare, è il riconoscimento dei progressi attuati da Mosca nell’ambito dell’accordo con l’Unione europea per la soluzione della crisi georgiana unito all’auspicio per la riapertura del dialogo politico in seno al Consiglio Nato-Russia in un futuro non troppo distante. Come per la missione in Afghanistan, tuttavia, anche per quanto riguarda i rapporti con Mosca tutto sembra rinviato al summit dell’aprile prossimo. Sarà allora, infatti, che l’adozione di una “Dichiarazione sulla Sicurezza dell’Alleanza”, il primo passo verso la formulazione di nuovo Concetto strategico, obbligherà i paesi della Nato a ricercare un consenso profondo sui principi e le priorità occidentali nello spazio post-sovietico nel suo complesso.
Buon compleanno, Nato
D’altra parte, se la vitalità di un’alleanza si misura non solo da ciò che ha conseguito, ma dalle aspettative che essa è ancora in grado di suscitare, il sessantenario della Alleanza Atlantica non sembra offrire un quadro così sconfortante. Autorevoli esperti internazionali del calibro di Brent Scowcroft e Zbigniew Brzezinski hanno di recente auspicato che la Nato assuma un ruolo preponderante come forza di peace-keeping in Palestina. Il neo-eletto Obama ha enfatizzato il ritorno degli Usa al multilateralismo e si è impegnato per la “ricostruzione” delle alleanze tradizionali dell’America dopo le tensioni emerse nell’era Bush. Il presidente francese Sarkozy, da parte sua, ha ribadito l’intenzione di riportare la Francia nel comando militare dell’Alleanza, una svolta storica che i suoi oppositori interni hanno bollato come dichiaratamente atlantista.
La questione tra ora ed aprile, non sarà dunque quella di rimettere in discussione ogni giorno il futuro della Nato, perché l’Alleanza sembra conservare ancora un posto centrale nella scelte politiche future dei suoi leader. Ciò che serve, piuttosto, è un approccio più pragmatico che eviti il “soul searching” fine a se stesso e affronti nello specifico i tanti problemi aperti senza infingimenti. In molti sono pronti ad ammettere che le numerose questioni che gravano sul futuro della Nato sono politiche e non puramente tecniche o militari. Si cominci allora un confronto politico tanto aperto quanto pragmaticamente orientato alla ricerca di un risultato. Se questo segnale uscisse dal meeting ministeriale di Bruxelles di dicembre, si potrebbe forse cominciare a sostituire qualche punto interrogativo con delle vere candeline.
Vedi anche:
CRS Report for Congress