La vittoria senza plebiscito di Erdoğan
Fratellanza, unità, solidarietà. Saranno questi i principi base della nuova costituzione turca che il premier Recep Tayyip Erdoğan, vincitore delle elezioni politiche di domenica 12 giugno, vuole scrivere insieme alle opposizioni parlamentari, alle altre forze politiche non presenti nella Grande assemblea, alla società civile e ai rappresentanti delle minoranze.
Luci e ombre
L’Akp, il partito di ispirazione islamica alla guida del paese dal 2002, ha conquistato il 49,9% dei voti e 326 seggi sui 550 disponibili, con un incremento di 3,3% e una perdita di 15 seggi rispetto alle politiche del 2007; formerà il terzo governo monocolore di seguito: un record nella storia del paese. Il partito di Erdoğan non è tuttavia riuscito a raggiungere l’ambita soglia di 330 deputati, necessaria ad approvare leggi costituzionali.
Perché questa vittoria netta dell’Akp? I motivi sono molteplici: la crescita economica, le riforme democratiche, le aperture verso le minoranze, una perfetta macchina organizzativa, il carisma del leader, la capacità di coinvolgere i giovani, la politica estera da potenza regionale che aspira a diventare globale del ministro Ahmet Davutoğlu.
Tra le opposizioni, il Chp, il partito erede della tradizione kemalista guidato da Kemal Kilicdaroglu, ha ottenuto il 25,9% e 135 seggi, con un incremento del 5% e 23 seggi in più rispetto al 2007: un buon successo, ma inferiore alle aspettative che lo accreditavano del 30% e capace di porre le basi per una sfida credibile alla leadership dell’Akp fra 4 anni; mentre il nazionalista Mhp, in crisi di identità dopo i contrasti interni sul referendum costituzionale del 12 settembre 2010 – contrari i vertici, favorevolissima la base – e minato da uno scandalo a luci rossi alla vigilia delle elezioni, ha limitato i danni attestandosi al 13% (- 1,3%) ma con un significativo ridimensionamento della presenza parlamentare, che passa da 71 a 53 deputati.
Turchia profonda
Gli altri vincitori sono i candidati indipendenti appartenenti in gran parte al partito curdo Bdp, che si sono presentati solo in alcuni distretti del sud-est – e senza simbolo – per non essere penalizzati dallo sbarramento per loro insuperabile – a livello nazionale – del 10%: ne sono stati eletti 36, tra cui il cristiano arameo Erol Dora, e nell’unica camera del Parlamento turco formeranno un gruppo autonomo.
L’Akp è andato male nel sud-est, dove ha perso circa il 10% dei voti e i seggi che gli mancano per avere la maggioranza dei 3/5 o addirittura dei 2/3 necessaria per riformare autonomamente la costituzione (con o senza referendum per la definitiva approvazione) – anche se già in campagna elettorale Erdoğan aveva promesso una costituzione condivisa.
I deputati vengono infatti assegnati su base distrettuale: questo spiega l’apparente stranezza – per un sistema proporzionale – dell’avanzata in termini di suffragi dell’Akp e del corrispondente arretramento in termini di deputati: il partito ha avuto incrementi su tutto il territorio nazionale, che non hanno fatto però scattare seggi supplementari; la brusca frenata nella regione a prevalenza curda – dovuta all’insuccesso delle politiche di apertura del governo lanciate nel 2009 – ha invece determinato la perdita di seggi.
Un’analisi approfondita dei dati su base distrettuale rivela anche che la prestazione del Chp è meno brillante di quanto appaia: il partito guidato da pochi mesi da Kemal Kılıçdaroğlu cresce infatti solo dove l’Mhp arretra e dove il Dp (il Partito democratico, al 6% 2007) praticamente scompare, mentre in nessun distretto elettorale sottrae voti o seggi all’Akp. Anzi, conquista voti e seggi in più rispetto al 2007 solo nelle regioni occidentali – mar Egeo e Tracia – in cui sono aumentati la popolazione e quindi i deputati da eleggere; nel sud-est, dove aveva lanciato un’offensiva elettorale, rimane fermo all’1-2%: porta in Parlamento (errore o ricatto dello “Stato profondo”?) cinque presunti membri dell’organizzazione golpista Ergenekon, tre dei quali attualmente in prigione.
Ambizione regionale
Nel discorso dalla sede di Ankara del partito, dopo l’annuncio dei risultati Erdoğan ha parlato non solo da leader della Turchia, ma di tutto il Medio oriente che aspira alla democrazia, dei territori ex ottomani ai quali la Turchia sta offrendo prospettive di integrazione e sviluppo.
Erdoğan ha voluto innanzitutto utilizzare toni concilianti, ben diversi da quelli arroganti e aggressivi che hanno portato la stampa interna legata all’opposizione e alcuni media internazionali a parlare di un “rischio autoritario” per la Turchia.
Toni concilianti, nuova costituzione da scrivere in modo condiviso per assicurare a tutti i turchi maggiori diritti e maggiori libertà: ecco il nuovo Erdoğan. Che ha affermato le proprie credenziali democratiche ponendosi nella scia di Adnan Menderes, il primo ministro del multipartitismo impiccato dopo il golpe militare del 1960; di Turgut Özal, il primo ministro e poi presidente del rilancio economico e del risveglio del conservatorismo d’ispirazione islamica; del padre della patria Kemal Atatürk, del quale condivide l’obiettivo prioritario di rendere la Turchia un paese moderno e pienamente sviluppato.
Erdogan si è rivolto ai cittadini turchi, inclusi quelli che vivono all’estero, a tutti i “fratelli” dell’Africa settentrionale, del Medio oriente, del Levante, dei Balcani, del Caucaso, assicurando l’impegno della Turchia – proposta come modello politico, economico e culturale – per promuovere la pace, la giustizia, i diritti e le libertà in tutta la regione.
Il premier turco ha indicato la strada di un duplice cambiamento: all’interno, con la nuova costituzione, per sgombrare finalmente il campo dalla “dittatura” dei militari, per portare a compimento la transizione democratica sulla falsariga di quelle di Grecia, Spagna e Portogallo negli anni ’80; nella vasta regione dell’ex Impero ottomano, ritagliandosi il ruolo di perno del sistema geopolitico afro-eurasiatico, non più ponte tra Est e Ovest, ma pivot a tutti gli effetti, ispiratore di processi d’integrazione regionale (economica e politica), di affermazione delle diversità culturali e di parallela trasformazione istituzionale in chiave democratica degli altri paesi.
Sempre in attesa di un cenno d’assenso da parte dell’Unione europea, sull’adesione che resta la priorità strategica in vista del 2023, quando ricorrerà il centenario della Repubblica.
.