Stati Uniti e Turchia davanti al bivio mediorientale
L’incontro tra il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e il presidente Usa Barack Obama, previsto per il sedici maggio a Washington trova i due leader in mezzo al guado di una difficile revisione strategica. Nei piani di Washington, la Turchia sta di fatto emergendo come “vassallo” regionale di una superpotenza Usa che punterebbe a giocare un ruolo meno prominente in Medio Oriente. Ankara sarà chiamata a decidere se un maggiore allineamento con gli Stati Uniti in questa fase di profonda instabilità nel suo vicinato offra principalmente vantaggi o se, al contrario, crei ostacoli al perseguimento dell’interesse turco.
Dal canto suo, l’amministrazione Obama si trova costretta a decidere quanto una strategia di mero contenimento dell’instabilità regionale sia ancora sostenibile. Di fronte al crescente rischio di scivolamento dell’intera regione verso il conflitto, la delega ad alleati regionali come la Turchia potrebbe essere ritenuta come non più sufficiente, rimettendo all’ordine del giorno un impegno più diretto degli Usa.
Dall’incontro di Washington e dalle successive missioni di Erdoğan e del Segretario di Stato Kerry in Medio Oriente emergeranno indicazioni importanti circa la direzione prescelta. Non si può tuttavia escludere che, come in passato, si sviluppino dinamiche contraddittorie, come ad esempio quella che vede un’America profondamente indecisa sul da farsi, appoggiandosi almeno in parte ad una Turchia rimasta su posizione ambigue.
Sabbie mobili
Nonostante dalla retorica ufficiale si potrebbe ricavare il contrario, la Turchia ha nel complesso sofferto le trasformazioni del mondo arabo degli ultimi anni. Negli anni duemila la ricostruzione di trame regionali sfilacciatesi dopo la disintegrazione dell’Impero Ottomano, fu rafforzata dal contrasto con le politiche di divisione e contrapposizione perseguite in Medio Oriente dagli Stati Uniti di George W. Bush.
Mentre i suoi interessi commerciali si espandevano significativamente in tutto il vicinato meridionale, offrendo un’alternativa ai mercati tradizionali europei, la Turchia di Erdoğan si proponeva come forza terza rispetto a Stati Uniti ed Unione europea, e “paese ponte” verso regimi come quello iraniano e siriano. La politica di “zero problemi con i paesi vicini”, cifra della nuova strategia turca e base di una possibile egemonia sull’area, non ha però retto alla prova degli sviluppi regionali.
Le rivolte arabe del 2011-2012 hanno portato al crollo di regimi con cui la Turchia aveva stretto rapporti amichevoli e vantaggiosi economicamente, dalla Siria di Assad alla Libia di Gheddafi. Con la guerra civile in Siria, le crescenti divisioni settarie in Iraq e la recrudescenza di questioni da lungo irrisolte come quella curda, la Turchia è stata catapultata di nuovo in un contesto altamente conflittuale. Mentre la competizione con altri attori determinati a difendere la propria posizione nei nuovi equilibri regionali si è fatta più serrata: dall’Iran alle monarchie del Golfo, dalla Russia all’Egitto post-Mubarak.
In questo quadro già significativamente fluido, il progressivo ritiro Usa dal teatro iracheno e afgano, e l’atteggiamento prevalentemente reattivo dell’amministrazione Obama di fronte a trasformazioni innescate dalle primavere arabe, ha creato ulteriori scompensi. Washington ha provato a servirsi della Turchia come partner strategico privilegiato, esaltando sia la cooperazione in ambito di sicurezza sia il valore regionale di un “modello turco” che ha saputo unire Islam, repubblicanesimo laico e dinamismo economico.
Imprudenze
Nell’elevare la Turchia a “partner modello”, Washington ha però trovato un paese a volte incapace o impreparato ad esercitare l’influenza che gli era stata attribuita, altre volte invece restio a modificare posizioni destinate a creare problemi nei rapporti con gli Stati Uniti. Nel primo caso si può includere la Siria, dove la Turchia si è trovata a verificare i limiti del suo ascendente su attori come Assad, e successivamente lo scarto tra una retorica bellicosa e la effettiva volontà di proiettare la sua forza nel conflitto in corso, almeno quella militare. Nel secondo caso si possono includere dossier centrali come l’Iraq e il processo di pace.
Nel caso iracheno, Ankara è riuscita contro ogni aspettativa a stringere negli ultimi anni un rapporto costruttivo con il governo regionale curdo nel nord del paese (Kurdistan regional government, Krg), mentre è rimasta intrappolata nella contrapposizione tra sciiti e il sunniti che si è andata acuendo durante il governo del primo ministro Nouri Al Maliki.
Washington ha visto con crescente preoccupazione l’avvicinamento tra Turchia e Krg, in quanto possibile passo verso la disintegrazione dell’Iraq. I rapporti sempre più tesi tra Ankara e Bagdad, inoltre, rischiano di limitare l’influenza turca al di fuori del Krg nel momento in cui invece servirebbe nel paese un forte bilanciamento alla influenza iraniana. Il paradosso sta dunque nel fatto che il paese che sembrava essere più interessato all’unità e indipendenza dell’Iraq, è ora visto da Washington come potenziale minaccia a tale obiettivo.
Sul fronte palestinese, il nodo rimane il rapporto tra Ankara e Hamas, che agli occhi di Israele e di Washington ha finito per compromettere la neutralità della Turchia, su cui si costruiva la sua posizione di potenziale mediatore nel processo di pace. Erdoğan ha fatto della sua schietta critica ad Israele un motivo di orgoglio nazionale e popolarità regionale. La rottura dei rapporti diplomatici tra i due paesi nel 2010 ha dunque solo suggellato un deterioramento iniziato almeno dall’offensiva militare israeliana a Gaza nel 2008.
Contenimento o intervento
Il recente successo riportato da Obama nel riavvicinare i due principali alleati regionali dell’America diventa dunque un banco di prova. Ankara ha per ora raffreddato gli animi usando la questione della compensazione delle vittime del raid israeliano del 2010, ancora in corso di negoziazione, come giustificazione per non riaprire la sua Ambasciata a Gerusalemme.
Il nodo successivo è la rimozione dell’embargo a Gaza come condizione posta da Erdoğan per una piena normalizzazione dei rapporti tra i due ex-alleati. Al di là delle richieste specifiche, dietro le titubanze di Ankara paiono celarsi esitazioni di fronte ad una scelta più ampia: l’accettazione di un allineamento pieno con gli Stati Uniti, con l’impatto di immagine e strategico che esso avrebbe. Una tale decisione metterebbe di fatto fine alle velleità di autonomia perseguite dalla Turchia negli anni scorsi.
Un elemento che potrebbe influire sulla decisione turca sta nel capire se tale allineamento avverrebbe contestualmente ad una nuova offensiva diplomatica americana nella regione. Resta infatti da chiarire se Washington abbia spinto sul riavvicinamento tra Turchia e Israele per preparare il campo ad un ritorno in grande stile degli Usa in Medio Oriente. O se invece questo impulso sia stato visto come funzionale a una politica che punta alla delega e accetta l’onere dell’intervento diretto solo quando strettamente necessario.
L’incontro di Washington fornirà sicuramente indicazioni a riguardo, ma non ci sarebbe da sorprendersi se l’esito fosse ambiguo, rafforzando una sensazione di profonda incertezza strategica. Oggetto dei colloqui tra Erdoğan e Obama sarà ad esempio la crisi siriana, su cui l’amministrazione Usa si è impegnata a lavorare con rinnovato interesse, ma non come si attendevano alcuni attraverso un sostegno militare alle forze di opposizione. Quanto, piuttosto, promuovendo con la Russia una conferenza di pace che molti ritengono destinata al fallimento prima ancora di essere convocata.