Sfatando gli equivoci sull’Iraq
Vi sono alcuni equivoci nella narrativa delle vicende irachene che non aiutano nell’analisi e nella ricerca delle possibili soluzioni.
Il primo è che il Presidente statunitense Barack Obama abbia accelerato un non necessario ritiro delle forze americane. In realtà il ritiro era inevitabile considerate le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, da rinnovare periodicamente, che disciplinavano anche lo stato giuridico delle forze ai sensi del Capitolo VII della Carta con i conseguenti poteri e immunità.
Ruolo Usa
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2008, l’amministrazione di G.W.Bush ritenne che dopo la sostanziale emarginazione di qaedisti e baathisti, grazie all’arruolamento di forze tribali sunnite, e la neutralizzazione delle milizie sciite nel sud, grazie all’iniziativa politica e militare di Nuri Maliki , si dovesse accettare la fine del regime ex-Capitolo VII, sempre meno giustificabile e sempre più contestato dagli iracheni ansiosi di conseguire la pienezza della sovranità.
Fu quindi concordato, anche con solenni dichiarazioni congiunte di Bush e Maliki, di regolare i rapporti reciproci con accordi bilaterali, comprensivi di una intesa su una limitata presenza dedicata all’addestramento, al “mentoring” e all’anti-terrorismo.
Il governo e parlamento iracheno rifiutarono però di concedere le immunità per il personale militare e civile richieste degli statunitensi. Non vi erano più le condizioni per forzature o imposizioni, e le truppe della coalizione dovettero completare il ritiro alla fine del 2011.
Un secondo equivoco è che l’intervento militare in Siria sventato in extremis lo scorso anno dall’intesa russo-statunitense sulle armi chimiche avrebbe evitato gli attuali sviluppi. Nella migliore delle ipotesi i bombardamenti previsti avrebbero “punito” e disturbato il regime di Bashar Al-Assad, ma da questo non sarebbe derivato un indebolimento delle forze jihadiste. Un impantanamento con forze di terra avrebbe avuto effetti ancora più incerti.
Maliki uomo di Teheran?
Un terzo equivoco è che Maliki sia indiscutibilmente l’uomo di Teheran. In realtà la sua ascesa a Capo del governo e la gestione dei suoi due mandati sono stati il frutto di una convergenza competitiva tra Usa e Iran da lui abilmente utilizzata.
Questa convergenza si è manifestata nelle fasi cruciali dei laboriosi negoziati per la formazione dei governi dopo le elezioni del 2005 e del 2010, malgrado le preferenze dei due attori esterni per altri candidati, e quando Maliki liquidò nel 2008 senza l’opposizione di Teheran le milizie sciite nel sud dell’Iraq sostenute, armate e utilizzate dall’Iran che ritenne allora preferibile rafforzare il Primo ministro e dimostrare ad iracheni e americani di poter graduare la destabilizzazione.
Con il coinvolgimento iracheno si tennero allora incontri a Baghdad tra statunitensi e iraniani per verificare le possibilità di una collaborazione nella prospettiva del previsto ritiro della forza multinazionale sottoposta ad attacchi sostenuti da Teheran parallelamente all’appoggio iraniano al governo.
L’Iran chiedeva un riconoscimento del proprio ruolo in Iraq e nella regione che Washington non poteva evidentemente concedere allorché non vi era alcun segnale positivo sul fronte nucleare e cresceva la retorica anti israeliana dell’ex presidente Amadinejad.
Sopravalutando le proprie forze e abilità, Maliki ha poi voluto imporre il suo potere personale. Ha strumentalizzato e alimentato il settarismo, emarginando fino alla persecuzione le rappresentanze sunnite, ha contrastato i curdi, imbaldanziti dalla stabilità, dallo sviluppo e dai rapporti con la Turchia della loro regione autonoma, e ha marginalizzato componenti sciite diverse dalla sua, dopo che nelle elezioni del 2010 si era presentato come leader nazionalista che rifiutava il settarismo e si rivolgeva a tutta la società irachena.
Questa politica di esclusione, accentramento del potere, gestione clientelare dell’apparato statale e della sicurezza con sproporzionate misure repressive nei confronti dei sunniti motivate dalla lotta al terrorismo e dalla debaathificazione, ha aperto spazi alle forze jihadiste e baathiste accettate come male minore da una consistente porzione della popolazione sunnita.
Occorre ora vedere in quali direzioni muoversi considerata l’improponibilità di un nuovo intervento militare unilaterale statunitense, mentre il parlamento iracheno deve eleggere il Presidente della repubblica e legittimare un nuovo governo dopo le elezioni dell’aprile scorso.
Maliki, con una ridotta maggioranza relativa, ha difficoltà a formare un governo necessariamente inclusivo e con una adeguata partecipazione di tutte le componenti all’esercizio effettivo del potere. La sconfitta dei jihadisti e dei loro alleati richiede una soluzione politica irachena, ma anche un sostegno politico e di sicurezza dall’esterno con un ruolo cruciale dei paesi della regione, alcuni dei quali hanno sostenuto gli estremisti sunniti in una logica di contrapposizione all’Iran e allo sciismo.
Uniti per eliminare il jihad
Stati Uniti, Iran, Turchia, Russia, Unione europea ed altri hanno un convergente interesse all’eliminazione dei jihadisti. Per realizzarla occorre un pieno coinvolgimento dei sunniti nella gestione del potere e della sicurezza.
Una intesa su queste basi è possibile ed è ovviamente strettamente collegata all’atteso accordo per garantire in modo inequivocabile l’impossibilità di una conversione militare delle capacità nucleari iraniane. Occorre che, a queste condizioni, anche le monarchie del Golfo, cosi come Israele, se ne convincano e diano il loro contributo.
Se da parte occidentale non si persegue tempestivamente e intelligentemente questa opportunità di intesa globale vi è il forte rischio che la contrapposizione efficace al jihadismo e l’influenza maggiore nel Medio Oriente siano lasciate a Iran e Russia.
.