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Cooperazione

Sviluppo: ‘partnership’ rimpiazza ‘aiuto’

16 Giu 2017 - Giampaolo Silvestri, Maria Laura Conte - Giampaolo Silvestri, Maria Laura Conte

La parola ”aiuto” allo sviluppo non piace più molto a Bruxelles, sepolta dalla storia e da esperienze che non hanno prodotto risultati validi. La parola regina agli European Development Days – 7 e 8 giugno – era piuttosto“partnership”: partnership tra Paesi diversi, tra Paesi e Ue, tra soggetti plurali come realtà della società civile, Ong e settore privato.

Per usare un’immagine plastica: è come se il piano inclinato sotto il peso di diseguaglianze che si manifestano a livello internazionale dovesse e potesse ritrovare la sua posizione di equilibrio intorno a questo cardine.

Basta interventi neo-colonialistici
Lo ha scandito il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker. E lo hanno ribadito leader e portavoce dei Paesi africani presenti: non vogliamo più interventi di stamponeo-colonialistico, hanno dichiarato; chiediamo interventi in cui noi giochiamo alla pari con gli altri.

In questo grande open space che sono gli ‘Edd’, la “Davos della cooperazione” come li chiama qualcuno, l’Italia quest’anno si è ritagliata un posto di rilievo: non solo perché c’erano e sono intervenuti nei vari dialoghi molti responsabili della nostra cooperazione internazionale, ma anche perché, a tre anni dall’introduzione della legge 125, si è verificato che anche il nostro Paese è attrezzato per stare al passo con i trend internazionali.

E forse è capace di qualcosa di più: non solo ha gli strumenti (l’Agenzia, un viceministro dedicato, il riconoscimento del settore privato come soggetto di cooperazione, il ruolo di Banca di Sviluppo della Cassa depositi e prestiti, il Consiglio nazionale della Cooperazione), ma ha anche la spinta a un’azione di ampio respiro. O almeno ci vuole provare.

Italia: migrazioni, strumenti e spinta
Si pensi al tema delle migrazioni: il contributo dell’Italia è stato all’origine del Migration Compact europeo. Ora il punto è non ristagnare e continuare a battere un sentiero anche se c’è chi sembra smarrirsi. Ma verso dove?

Ci sono alcuni temi che incrociandosi, generano situazioni di crisi e richiedono il nostro contributo di esperienze maturate sul campo insieme a idee innovative: migrazione e sviluppo da un lato; e migrazione e sicurezza dall’altro.

Il tema migrazioni verso l’Europa non si risolve provando a spostare i confini europei in Africa, investendo fondi destinati alla lotta contro la povertà (Trust Fund Africa) per aumentare i controlli e la polizia di frontiera. Questo piano sta mostrando la sua debolezza: sotto la spinta demografica, della fame, della siccità, delle guerre, comunque i flussi migratori trovano sempre varchi attraverso cui passare.

La chiave dei posti di lavoro
Se partiamo dai dati di realtà, approdiamo a un’altra parola che risuona a tutte le latitudini: job creation, posti di lavoro.Una condizione irrinunciabile sia per contenere le partenze di migranti, sia per per favorire l’integrazione.L’External Investment Plan (Eip) che l’Unione europea sta attivando e che potrebbe mobilitare 60 miliardi da destinare alle imprese intenzionate ainvestire in Africa, potrebbe essere una grande occasione di creazione di veri posti di lavoro con il coinvolgimento della società civile e delle realtà e istituzioni locali.

Vale anche per i rifugiati. Chi opera nei campi dei profughi siriani, solo per citare uno dei tanti casi, sa per esperienza che un progetto di cash-for-work può permettere, achi sosta per tempi infiniti nei campi in Libano, in Giordania o in Kenya,di riguadagnare la propria dignità. Un progetto di questo tipo sostenuto dalla Cooperazione italiana in Libano attesta questo nel dettaglio.

Il denaro contante in cambio di un lavoro, che molto spesso è di utilità pubblica, giova in due modi: all’Europa, che così contiene l’arrivo di nuovi disperati, e ai Paesi di origine delle migrazioni. Previene infatti la dispersione delle “risorse umane”, capitale prezioso per Paesi che, come la Siria, a un certo punto, finita la guerra, dovranno ripartire dal loro popolo. Chi arriva in Europa di rado torna indietro.

L’abbinamento lavoro/educazione
Ma il lavoro non basta. Il lavoro senza educazione rischia di avere il fiato corto, come il viceversa. Educazione senza lavoro, genera frustrazione. Solo che il tempo che viviamo chiede di definire bene “educazione”. Si è usata questa parola come un mantra nella cooperazione, ma le sfide di oggi chiedono di considerarne non solo il contenitore, ma anche i contenuti.

Educazione non coincide con istruzione, deve essere quality education, educazione inclusiva, prevedere accanto alla trasmissione di competenze tecniche, anche una precisa “sostanza”.

Pensando che pure i reclutatori d’estremisti violenti aprono scuole e investono in forme di training, in Avsi proviamo a sintetizzare così l’alternativa: accompagnare a pensare criticamente e scoprire che l’altro, chiunque sia – la persona diversa per cultura, appartenenza, religione, ecc – è un bene sempre, quindi non può essere percepita mai come un ostacolo da far fuori.

Il progetto Back to the future
Questa per esempio è la sfida del progetto Back to the future, finanziato dal fondo Madad, che Avsi con altri partner sta realizzando in Libano e Giordania. I numeri aiutano a capirne la misura: 30.000 i bambini coinvolti in Libano, 10.000 in Giordania, per un totale di 200.000 beneficiari indiretti.

Lavoro ed educazione intesi in questo modo meritano, dunque, il massimo degli investimenti che si vogliano destinare a sviluppo e sicurezza. A tre condizioni: la capacità di pensare a lungo termine; la libertà dagabbie ideologiche e dai ritmi delle campagne elettorali; la collaborazione con tutti i soggetti coinvolti, a partire dall’Unione europeae da un uso intelligente delle sue regole e dei suoi strumenti.