Africa/Ue: Vertice Abidjan, cambio passo su spinta migranti
Il Vertice che si è svolto ad Abidjan il 29 e il 30 novembre ha le potenzialità per segnare un cambio di passo nei rapporti tra Ue e Africa e andare oltre la formula del Summit che si consuma in dichiarazioni di intenti. Questo perché – forse? – la realtà si sta finalmente imponendo, sotto la forza d’urto delle migrazioni, che non lasciano più tregua (anche per le campagne elettorali che cadenzano la vita europea), e della spinta demografica da Sud. Nel 2050 l’Africa avrà il quadruplo degli abitanti dell’Europa: che cosa possono fare i vecchi (e non metaforicamente) europei?, costruire paratie nel Mediterraneo?
Chi si occupa a Bruxelles della cooperazione allo sviluppo ha deciso che è giunto il tempo della responsabilizzazione di tutte le parti in causa, al punto da spingere le politiche pubbliche nei confronti dell’Africa verso una maggiore “imprenditorialità”, nel senso letterale del termine.
Il lancio del nuovo External Investment Plan
Qui si innesta il nuovo External Investment Plan che sarà lanciato ufficialmente ad Abidjan e che punta sugli investimenti del settore privato nell’interesse economico dell’Africa, ma anche della stessa Europa. Il payoff di questo piano è “Meno aiuti, più investimenti”: ovvero le concessioni a pioggia cominciano ad appartenere al passato remoto, mentre avanzano strumenti finanziari per nuove forme di partenariato. Tradotto in cifre: l’Eip mette sul piatto 4,1 miliardi di euro che, come leva finanziaria, vogliono mobilitare finanziamenti privati per una cifra di 44 miliardi.
L’obiettivo è dichiarato: combattere la povertà e favorire lo sviluppo attraverso la creazione di dai 15 ai 20 milioni di posti di lavoro all’anno in Africa, ma con una ricaduta anche “a casa nostra”. Chance economiche in loco per le nuove generazioni africane, infatti, hanno risvolti quali il contenimento in prospettiva delle migrazioni, l’apertura di nuovi mercati, la crescita delle imprese private europee, oltre che di quelle locali. All’obiezione, scontata pure ad Abidjan, “chi investirà mai in posti a così alto rischio?”, la Ue risponde con un fondo garanzia di 1,5 miliardi di euro, riservati a coprire i rischi delle aziende che oseranno spingersi oltre il mare.
Attese e debolezze: l’esperienza di chi opera in loco e le CSOs
Il ‘piano di Abidjan’ solleva molte attese, dunque, ma che ha un punto debole, specie se si guarda attraverso la lente di alcune esperienze vissute da realtà come Avsi. Bruxelles potrebbe finalmente provare a puntellarlo: il ruolo riservato alle CSOs, le organizzazioni della società civile.
L’EU External Investment Plan, infatti, riconosce l’importanza del ruolo delle organizzazioni della società civile nell’advocacy dei diritti dei più vulnerabili e nel watchdog, cioè nel controllo del rispetto dei diritti umani. Questioni importanti. Ma se si considera tutta l’ampiezza dell’azione di un’organizzazione che fa cooperazione allo sviluppo sul territorio, questo ambito rischia di diventare un recinto stretto, pure piuttosto asfittico.
Andiamo quindi alle esperienze, non alle teorie della cooperazione, e in particolare prendiamo spunto dal SDG 7, l’accesso all’energia. Si stima che 1.3 miliardi di persone non abbiano accesso all’energia, il 95% delle quali vivono nell’Africa sub-sahariana e in Asia, prevalentemente in zone rurali. Nel continente africano, il 30% delle scuole e degli ospedali operano senza energia elettrica e nella zona sub-sahariana sette persone su 10 non vi accedono.
Consapevole di muoversi in questo contesto, Avsi ha avviato una serie di collaborazioni con esponenti del settore privato di taglie diverse, sia grandi multinazionali che imprese medio-piccole.
Le collaborazioni dell’Avsi nel settore energetico
Con Eni, Avsi ha sviluppato esperienze significative in Congo Brazzaville e Mozambico: qui i progetti si occupano di sviluppo sociale, sostenibilità ambientale, formazione, educazione e sviluppo imprenditoriale. Avsi in particolare è responsabile di valutazione di fattibilità, analisi del mercato partendo dalla collaborazione con gli stakeholders locali, analisi e report dell’impatto ambientale, sociale e sanitario e analisi d’investimento nelle comunità.
In Uganda, sul lago Vittoria, Avsi opera in partnership con Absolute Energy Servizi Srl in un progetto di elettrificazione rurale per portare soluzioni off-grid nell’isola di Kitobo e fornire servizi alla comunità. Oltre a programmi di coinvolgimento della popolazione, il partenariato qui sta innescando la promozione di start up e d’imprese locali, oltre che di educazione all’uso efficiente dell’energia e di capacity-building. I beneficiari del progetto, quindi, sono i 1500 abitanti, ma anche le 50 micro-imprese del luogo.
Un altro esempio ancora: in Kenya Avsi e Absolute Energy Servizi Srl stanno sviluppando un impianto idroelettrico nella contea di Meru per 30.000 persone in partnership con un’associazione comunitaria. Grazie al contributo di Avsi, l’azienda creerà una utility locale in cui l’associazione diventerà azionista in virtù del lavoro offerto alla creazione dell’impianto e delle infrastrutture già costruite e diventerà co-gestore dell’utility. Il modello di business è pensato dunque per favorire un ritorno diretto di benefici sulla comunità e al tempo stesso per garantire la sostenibilità sociale del business nel lungo periodo.
Coinvolgere le CSOs nel ciclo di un progetto dall’inizio alla fine
Ecco quindi: in questa prospettiva una organizzazione della società civile può essere contemplata solo come una paladina di advocacy? No, perché vorrebbe dire ridurne lo specifico e rinunciare a una porzione di impegno già verificato come indispensabile nella costruzione di partnership efficaci nel breve e lungo termine.
Proprio in coerenza con l’obiettivo ultimo del piano europeo che sarà presentato ad Abidjan, le CSOs vanno coinvolte nell’intero ciclo del progetto, dall’individuazione alla valutazione passando per l’implementazione. E questo attraverso un sistema per cui nella fase di selezione e valutazione dei progetti sia prevista una premialità per i soggetti che coinvolgono CSOs.
Perché? Mettiamo ancora più a fuoco il punto, alla vigilia di Abidjan: perché se la CSO è insostituibile nella formazione (capacity building) di realtà locali che non possono essere tagliate fuori nell’azione di sviluppo o nella sensibilizzazione alle opportunità che un determinato progetto crea, essa è d’aiuto essenziale anche nell’individuazione di eventuali nuovi consumatori appartenenti alle classi più povere e nella costruzione di una nuova domanda del mercato attraverso, per esempio, per restare all’energia, la costituzione di attività produttive che chiedono energia.
Dalla Corporate Social Responsibility al Creating Shared Value
Capaci per il loro profilo di coinvolgere tutti gli stakeholders, le CSOs sanno come porre le premesse perché un ambiente diventi favorevole agli investimenti, in vista di quello che tecnicamente viene chiamato Creating Shared Value. Il processo di creazione di valore condiviso – per cui l’azienda raggiunge i suoi obiettivi aziendali attraverso la promozione dello sviluppo delle comunità in cui opera – è un passo in avanti rispetto alla Csr (Corporate Social Responsibility) perché ha a che vedere con il core business stesso dell’azienda. Non è solo uno scotto da pagare in cambio di uno sfruttamento, ma un guadagno per l’impresa in termini finanziari e di mercato.
Infine, forse basta un’istantanea: pensiamo a un’impresa che voglia entrare in uno slum per portare la sua energia in modo regolare, trasformando gli abitanti in clienti paganti. Come ci entra? Certi slum non sono proprio i posti più cordiali della terra. L’unica via è passare attraverso i volti noti di chi da anni sta là e lavora, con i piedi nel fango all’occorrenza, per portare aiuti e interventi sociali. Come un vicino, non (solo) come un cane da guardia.