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L'abbraccio tra Ahmed e Afewerki

Etiopia-Eritrea: la scommessa (da vincere) della pace

13 Lug 2018 - Eloisa Gallinaro - Eloisa Gallinaro

L’abbraccio “fraterno” che promette un futuro di speranza a una parte almeno del tormentato Corno d’Africa c’è stato l’8 luglio, quando il premier dell’ Etiopia Abiy Ahmed è sbarcato ad Asmara accolto con tutti gli onori dell’ormai ex nemico numero uno, il presidente dell’ Eritrea Isaias Afewerki, che non ha potuto dire di no all’improvvisa offerta di pace di Addis Abeba. Diretta televisiva, canti, balli e l’inusuale spettacolo delle bandiere dei due Paesi affiancate: così la capitale eritrea ha festeggiato l’ospite e il primo passo della normalizzazione dei rapporti a vent’anni dalla guerra di confine tra gli ex Stati fratelli nati nel 1991 dalla lotta comune contro il negus rosso Menghistu Haile Mariam  e poi divisi dal sangue di decine di migliaia di morti.

Dopo una stasi di 18 anni, una pace a tappe serrate
L’accordo di pace firmato ad Algeri nel 2000 con la paziente mediazione dell’allora Oua (Organizzazione per l’unità africana, oggi Unione africana), dell’ex segretario di Stato Usa per la Sicurezza nazionale Anthony Lake e dell’inviato speciale dell’Ue, il sottosegretario italiano agli Esteri Rino Serri, era rimasto inapplicato. E i rapporti tra i due Paesi hanno continuato ad essere  tesi con ripetuti scontri alla frontiera che hanno fatto temere, in più di una occasione, la ripresa della guerra, mentre la rottura dei rapporti diplomatici e commerciali e la sindrome di accerchiamento nei confronti dell’ingombrante vicino hanno spinto l’Eritrea verso una deriva autoritaria che le ha fruttato le sanzioni Onu e l’isolamento internazionale.

Che l’aria stesse cambiando si era già capito il giorno dell’insediamento del riformista Abiy Ahmed, il 2 aprile. Il nuovo premier etiopico, il primo di etnia oromo – maggioritaria ma da sempre politicamente marginalizzata dai potenti tigrini -, aveva fatto un discorso conciliante nei confronti dell’ Eritrea. Poi alle parole sono seguiti i fatti, con una velocità inusuale in Africa. Il 6 giugno la decisione di abolire lo stato di emergenza e la dichiarazione di accettare l’Accordo del 2000.

Pochi giorni dopo, il 26, una delegazione eritrea guidata dal ministro degli Esteri Osman Sale arrivava in Etiopia per il primo round di colloqui. Il 9 luglio la firma degli accordi che hanno stabilito la fine dello ‘stato di guerra’, la ripresa formale delle relazioni diplomatiche, dei collegamenti aerei e l’uso dei porti eritrei per Addis Abeba. Immediato il ripristino delle linee telefoniche interrotte da vent’anni. “Possiamo immaginare un futuro senza confini nazionali e alte mura che ci dividono. La gente della nostra regione è unita verso comuni obiettivi”, ha commentato Abiy Ahmed al momento della firma con una frase degna dei tempi migliori.

Intrecci personali e risvolti etnici
A spingere verso la pace il giovane leader (42 anni) di Addis Abeba un disegno di stabilizzazione del Paese che passa attraverso la liberazione dei prigionieri politici, la riapertura dei media censurati, la ripresa economica e la necessità di attrarre investimenti internazionali, tanto che anche gli oppositori del Ginbot 7 , messi al bando come gruppo terroristico nel 2011, hanno annunciato di deporre le armi cosi come i ribelli del Fronte di liberazione del popolo oromo, a suo tempo appoggiato dagli eritrei contro  l’allora leader di Addis Abeba Meles Zenawi (morto nel 2012).

Una strategia che passa  anche attraverso la soluzione del problema dei profughi: centinaia di migliaia di eritrei in fuga da condizioni economiche drammatiche e dalla violazione sistematica dei diritti umani sono ammassati nei campi dell’Etiopia e costituiscono un ulteriore fattore di destabilizzazione. Ma anche il fatto che l’annosa questione dei confini ha perso quella sfumatura di contrapposizione personale che aveva portato alla guerra Meles e Isaias , entrambi tigrini, amici – qualcuno dice anche cugini -, uniti dalla lotta di liberazione contro il Derg di Menghistu e poi diventati nemici.

Storia di una lotta insieme e di una guerra contro
Nella guerra  contro il Negus rosso,  il Fronte popolare di liberazione del Tigrai  di Meles si alleò con il Fronte popolare di liberazione dell’ Eritrea  di Isaias: il 21 maggio 1991 Menghistu fuggiva in Zimbabwe travolto dalla forza della guerriglia, ma anche dalla disgregazione progressiva che l’abbandono strumentale del marxismo nel ‘90 e la liberalizzazione economica non erano riusciti ad arginare. Il 23 luglio 1991 Meles diventò capo della Stato  mentre l’ Eritrea si dette un governo provvisorio in vista dell’indipendenza  ‘concordata’  con Addis Abeba. Due anni dopo, un referendum sancì l’indipendenza con il 99% di sì e la nascita di un nuovo stato indipendente guidato da Isaias . Per la storia dell’Africa, segnata da sanguinosi tentativi di secessione, era una novità assoluta. Ma l’illusione  durò solo qualche anno e i compagni di lotta diventarono i peggiori nemici, oltre che di se stessi, dei rispettivi Paesi.

Le frontiere non erano mai state del tutto definite anche perché  a varie riprese e in troppi –compresi  italiani, inglesi, gli stessi etiopici – ci avevano messo le mani. E anche le commissioni ad hoc istituite dopo  la scissione dell’Eritrea  per risolvere le questioni confinarie in sospeso, fallirono, mentre i rapporti si deterioravano progressivamente con accuse ricorrenti ad Addis Abeba di sostegno all’ Eritrean Islamic Salvation Movement, supportato dal Sudan, che aveva l’obiettivo di rovesciare il governo di Asmara. E, in maniera più o meno strumentale, l’Etiopia occupò il villaggio di confine di Badme.

Era il 6 maggio 1998. Sette giorni dopo l’Etiopia dichiarò la guerra. Nessuno sa quanti furono i morti nei due anni successivi: forse 70 mila, forse 100 mila. L’Etiopia perse l’uso dei porti eritrei e rimase senza sbocco al mare, l’Eritrea si trasformò in un regime totalitario rispetto al quale anche l’odiato e combattuto Derg di Menghistu sarebbe forse impallidito. Ora Badme sarà riconsegnata all’ Eritrea, anche se l’opposizione delle popolazioni locali potrebbe comportare qualche rischio per quella la stabilità che Ahmed sta cercando faticosamente di riconquistare. E che conviene a tutti, a partire dagli ‘amici’ occidentali, in una vasta regione dove l’instabilità sarà ‘garantita’, presumibilmente ancora per molti anni, dalle guerre e guerriglie di Libia, Somalia e Sudan.