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Dialettica tra Mediterraneo, Sahara e oltre

Africa: il Continente sempre più inevitabile

17 Ago 2018 - Diego Bolchini - Diego Bolchini

Il professore di relazioni internazionali Colin S. Gray parlava alcuni anni or sono di “inescapable geography”, intendendo con questa espressione una ineludibilità certamente fisica e oggettiva, ma anche percettivo-simbolica. Questo perché “Geography can speak also to mind and immagination”. Si pensi, rapportando questo assunto all’ Africa del 2018, alla dialettica – geopolitica e mentale – tra ‘lago’ Mediterraneo e nuovo ‘mare’ sahariano, ove una progressiva desertificazione amplifica le criticità sociopolitiche reali.

L’ Africa, di fatto, appare sempre di più un Continente “inevitabile”. Non è un caso che l’Italia, negli anni più recenti, ha reso più fitta la sua attività di incontri e visite bilaterali / multilaterali ad alto livello in questa area del mondo. Oltre ad aver deciso di aprire (o riaprire) rappresentanze diplomatiche in Paesi quali Guinea, Niger e Burkina Faso e di inviare un rappresentante permanente presso l’Unione africana. Paesi in forte proiezione internazionale, come la Turchia, hanno addirittura quasi quadruplicato il numero delle ambasciate nel Continente, passando dalle 12 sedi esistenti nel 2009 a 44 sedi nel 2018 [1].

Narrazioni africane
I 55 Paesi dell’Unione africana appaiono tuttavia possedere tratti di disomogeneità alquanto marcati tra di loro. Si pensi, solo per fare un esempio limitato ad un’area circoscritta con l’East-Africa, alle differenze strutturali tra due Paesi confinanti come Kenya e Tanzania. Quest’ultima è stata attraversata per venti anni da un inedito esperimento di socialismo africano: il sistema dell’Ujamaa di Julius Nyerere, presidente della Tanzania dal 1964 al 1985, nonché primo tanzaniano a frequentare l’Università di Edimburgo nel 1949 (alla cui memoria è stata istituita una scholarship nel 2009).

In questo contesto, rimane di centrale importanza la narrativa adottata nel visualizzare il Continente africano. Ad una certa schizofrenìa di descrizioni globali presente in alcuni media anglosassoni – che alternano in tempo ravvicinatissimo visioni apocalittiche ad altre iper-ottimistiche -, bisognerebbe contrappore un sano razionalismo localizzato e differenziato, giacché quando si parla di Africa non siamo di fronte ad un monolite geopolitico ma una realtà multi-sfaccettata. Occorre dunque lavorare per contesti e sotto-contesti, non per modelli generali. Parafrasando le parole del fisico teorico Roger Penrose, appare altresì utile abbandonare approcci e abiti mentali basati su “moda, fede e fantasia” nelle descrizioni geopolitiche correnti, oltre che nella nuova fisica dell’universo[2].

Popoli senza Stati, Stati a sovranità variabile
Questo è tanto più vero se si guarda con attenzione al livello sub-statuale in Africa: si pensi al gruppo etnico Fulani, presente in Sahel e nell’ Africa occidentale e disperso su 15 Paesi diversi, ben al di là delle geometriche linee di confine esistenti tra Paesi quali Nigeria, Sierra Leone, Mali e Niger. Paesi sempre più al centro dell’attenzione internazionale ed europea, tanto che alcuni ricercatori si sono spinti a parlare di Sahel quale “nuovo confine europeo”, abbassando e incurvando sempre di più quell’ arco di crisi menzionato anche dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta in un suo recente intervento pubblico.

Parallelamente, si è assistito negli anni più recenti anche alla nascita (ed in alcuni casi subitanea morte) di nuove realtà per frammentazione. Si pensi ai casi degli Stati del Maakhir e Northland nel Corno d’Africa somalo: stati autoproclamati rispettivamente nel 2007 e nel 2008 ed incorporati subito dopo nel Puntland, regione somala dotata di ampia autonomia. O al Somaliland, auto-dichiaratosi indipendente dal 1991 e dotatosi di una propria moneta sin dal 1994.

Conclusioni
Tra i molti paradossi del Continente africano e della sua inevitabilità, se ne possono distinguere alcuni di tipo sostanziale-materiale (essere un macro-realtà importatrice netta di cibo, pur avendo una popolazione che viene stimata essere composta per oltre il 60% da agricoltori), altri di tipo spirituale (dialettica tra popolazioni aderenti al ‘sufismo’ e correlato amore verso il soprannaturale e realtà rigidamente ‘shariatiche’, ove appare prevalere di converso un sentimento di timore verso il trascendente).

In tutto ciò appare essenziale avere un corretto approccio interculturale, che distingua in modo sottile linee percettive e passi evolutivi esperibili nelle interazioni locali. Cosa dunque aspettarsi per il futuro? Gli scenari possibili appaiono molteplici, secondo gli archi temporali che si vogliono considerare.

Nel breve-medio termine, di qui al 2020, è verosimile affermare che le polarizzazioni potranno ampliarsi o anche ridursi, ma secondo perimetri di azione tutto sommato ancora immaginabili. Al 2060-2070, i correnti strumenti di valutazione potrebbero essere forse inadeguati per visualizzare l’Africa che osserveranno le generazioni a venire.

J.F. Kennedy e McNamara avrebbero forse potuto prefigurare Xi Jinping e una Repubblica popolare cinese in proiezione globale, guardando alla Cina dall’angolo prospettico del 1960? Gli specchietti retrovisori delle vetture Ford Falcon – diffuse al tempo sulle strade statunitensi – non avrebbero potuto offrire sufficiente visibilità.

[1] Erdogan mette le mani sull’Africa e sfida Xi, La Stampa, 19/6/2018.

[2] R. Penrose, Numeri, teoremi e minotauri, Rizzoli, 2017.