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Il punto di vista degli analisti

Sudan: deposto Bashir, prospettive per la transizione

14 Mag 2019 - Francesco Cisternino - Francesco Cisternino

Non sono stati né il prezzo del pane né quello della benzina, benché proibitivi, i fattori scatenanti della protesta sudanese; al contrario, è stata la presa d’atto che il regime dittatoriale di Omar al-Bashir era giunto al termine, nell’impossibilità manifesta e incontrovertibile di soddisfare i bisogni del proprio popolo. Non potevano essere più chiare le prime battute di un incontro organizzato dal St Antony’s College dell’Università di Oxford per approfondire le criticità sul piano istituzionale, sociale e geopolitico che il Paese africano sta affrontando in questi giorni.

Crisi politica e alimentare
Spiega Ahmed Al-Shahi, antropologo sociale e co-fondatore del Sudanese Programme, che  la vita politica del Paese è stata spesso monopolizzata da conglomerati chiamati “partiti”, ma che in realtà erano scatole vuote. Etichette qualsiasi – fossero esse Partito del congresso nazionale o Partito nazionale del popolo – coprivano centri di potere la cui preoccupazione era sistemare impiegati pubblici e boiardi in ogni angolo disponibile.

Una volontà di affrontare i problemi sociali, etnici e religiosi che si sono accumulati nel tempo non si è mai vista. In assenza di consenso sulle scelte, l’unica cosa che poteva aumentare era la frammentazione; e il Sudan si è ritrovato povero, diviso e tribalizzato. La crisi alimentare è stata la conseguenza, non la causa, della crisi politica; e quando la promessa del dittatore di togliere il blocco delle importazioni dall’Egitto, nell’ottobre 2018, non ha dato risultati, allo sconforto è seguita la disperazione.

Il Sudan ha però una componente reattiva numerosa, che nei momenti più duri è storicamente scesa in piazza ad esprimere il proprio dissenso. È accaduto in passato in occasione dei coup d’etat e si è ripetuto nel dicembre scorso, quando le file per trovare dei generi alimentari diventavano sempre più lunghe e dure da sopportare. Non protestavano solo giovani disoccupati, ma donne d’ogni estrazione sociale e professionisti, medici innanzitutto; queste presenze hanno destato interesse tra i media europei.

Fra medici e ufficiali
È Sara Abdelgalil, pediatra e presidente dell’associazione dei medici sudanesi nel Regno Unito, a fornirne i dettagli. Negli ultimi anni, il sistema sanitario sudanese è divenuto progressivamente più esclusivo, e la scarsità di fondi (le casse statali languono, da qui la fine dei sussidi e l’innalzamento dei prezzi al consumo) ha reso il servizio impossibile da espletare. Gli scioperi nel dicembre scorso hanno visto studenti universitari e medici nelle strade; le immagini delle violenze ai loro danni sono note.

Meno si sa di coloro i quali sono stati torturati nelle carceri; l’associazione ha accertato 117 morti e alcune centinaia di feriti nel solo dicembre 2018. Le manifestazioni sono andate avanti tra alti e bassi sino al febbraio successivo, quando il presidente ha decretato lo stato d’emergenza, rimosso ministri e governatori regionali; da lì in poi la situazione è peggiorata, con la particolarità che gli alti ranghi dell’esercito sono rimasti fedeli al regime mentre le leve medie e basse si sono unite alle proteste (ma tra l’esercito, le forze di polizia e gli apparati dei servizi segreti si è registrata tensione).

Evitare il rischio di un nuovo Egitto
Insomma, in piazza ci si sono ritrovati tutti: e l’unione ha fatto la forza. Bashir è stato incarcerato e al suo posto si è insediato un consiglio militare transitorio composto da otto generali, guidati da Abdel-Fattah al-Burhan. Il consiglio ha presto rimosso i massimi livelli dei servizi di sicurezza e liberato i prigionieri politici, ed ha un mandato di tempo limitato. Ma chi potrà garantire il passaggio di consegne all’organismo formato da civili richiesto dai manifestanti? Come si potrà prevenire che i gruppi di potere cementatisi attorno al vecchio regime non si ripropongano tali e quali sotto l’egida di un altro despota, come è accaduto in Egitto?  Nel Paese, infatti, non c’era  stato spazio per altri leader politici; e quelli che c’erano stati avevano avuto vita breve. Eliminare rendite di posizione consolidate, e i loro detentori, sarà difficilissimo; tanto più che i confinanti, anzitutto l’Egitto, hanno espresso apprezzamento per i militari al potere e preferirebbero mantenerli dove sono.

Tocca a Richard Barltrop, esperto di relazioni internazionali e autore di un volume sul Darfur, il compito di capire se vi siano le condizioni per una transizione pacifica. Tutti chiedono un cambiamento: ma se i partiti esistenti sono delegittimati e le istituzioni deboli, che tipo di aspettative si possono avere ragionevolmente? Il rischio, infatti, è che si crei una situazione simile a quella della Tunisia dopo la fuga del dittatore Ben Ali, nella quale le speranze di un cambiamento tempestivo e generale si spensero gradualmente quando ci si rese conto che le difficoltà da affrontare a livello giuridico, istituzionale e politico erano così profonde da richiedere tempo, consapevolezza e mezzi al di fuori della propria portata.

Le posizioni degli attori regionali
In Sudan, sauditi ed emiratini parteggiano per il consiglio di transizione militare; a metà aprile scorso sono stati tra i primi a congratularsi ed incontrare i leader del consiglio, e hanno proposto un pacchetto di “aiuti” di un valore che potrebbe arrivare sino a tre miliardi di dollari, 500 milioni dei quali sarebbero stati temporaneamente depositati presso la Banca Centrale. La proposta, però, non ha incontrato i favori di una parte consistente dei manifestanti, i quali temono che accettandola si acquisirebbero obblighi indesiderati piuttosto che facilitazioni. Simile è la posizione dell’Egitto, ribadita nel forum dell’Unione africana recentemente tenutosi proprio al Cairo per via della presidenza di turno.

L’Ua, dal canto suo, ha preferito estendere il limite temporale di passaggio dei poteri dalla giunta militare ad un organismo civile da due settimane a due mesi.  La presenza russa attira attenzione, soprattutto dopo che foto scattate in loco avrebbero ritratto personale e mezzi della compagnia di mercenari Wagner Group pronti ad intervenire in sostegno di Bashir (cosa poi non avvenuta: il pragmatismo russo sembra aver prevalso, almeno sinora).

Curiosamente non si è parlato né di Qatar né tantomeno di Turchia, uno dei pochissimi Paesi cooperanti con il regime sudanese militarmente e politicamente, nonostante il satrapo Erdogan abbia definito la cacciata di Bashir un “attacco diretto alla Turchia da parte dell’Occidente e di alcuni Paesi arabi”. Sembra essere sfumato, infatti, il progetto di installare una base militare turca sull’isola di Suakin, che avrebbe conferito ai turchi un punto d’accesso sul Mar Rosso centrale straordinario; e si è dissolto anche il trattamento di favore che i membri egiziani della Fratellanza Musulmana, invisa al regime di al-Sisi, avevano trovato sotto la protezione di Bashir.  Poco o nulla da segnalare da parte di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Lega Araba, o dal trio Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti. E l’Unione europea? Finora l’Alto rappresentante Federica Mogherini si è limitata ad un comunicato stampa.

Il futuro del Paese
Quello che emerge, insomma, è un quadro in cui una presenza militare continuativa e un mantenimento dello status quo – probabilmente con i vecchi notabili nella stessa posizione di forza – sarebbero visti con favore da tutti i Paesi con interessi in Sudan. Ma è una contro-rivoluzione ciò di cui il Paese ha bisogno? L’esperienza, soprattutto quella dei vicini Yemen ed Egitto, indurrebbe a dire di no.

Quantomeno al momento, però – concordano i relatori -, il consiglio temporaneo non sembra avere né priorità nascoste né interessi particolari da perseguire. C’è ancora spazio per credere che all’interno e al di fuori dei confini nazionali il Sudan possa dar vita ad un processo inclusivo, in cui ad una partecipazione effettiva seguano degli obblighi che si possano perseguire e ottemperare.

Foto di copertina © Mohamed Khidir/Xinhua via ZUMA Wire