Parla l’ambasciatore Sergio Romano
Sergio Romano – diplomatico, storico, scrittore, attualmente editorialista del Corriere della Sera – conversa con AffarInternazionali su alcuni dei dossier più rilevanti della politica internazionale.
Ambasciatore, la comunità internazionale è alle prese con il coronavirus. Come stiamo gestendo l’emergenza?
“Naturalmente, ogni Paese ha le sue strutture e non ci si può sorprendere se quelle dei Paesi che ancora qualche tempo fa chiamavamo del terzo mondo, non sono attrezzati come quelli occidentali. Non mi sembra sia sorprendente. Tuttavia, credo si stia reggendo alla sfida. Sono situazioni classiche, in un determinato momento scatta la macchina del panico ed è difficilmente controllabile. Scatta da noi e, ancora, non credo sia sorprendente che qualcosa di ancora peggiore accada altrove”.
L’Iran ha vissuto l’annuncio dei primi casi di coronavirus in concomitanza con le elezioni parlamentari. L’affluenza è stata bassa, i conservatori sono stati eletti in gran numero come previsto dopo le bocciature dei candidati riformisti da parte del Consiglio dei Guardiani. Che momento è per la Repubblica islamica?
“Anche qui, quanto dice nella domanda non dovrebbe sorprenderci. Dopo il noto trattamento da parte degli Stati Uniti verso l’Iran, era inevitabile che il partito dei “dialoganti”, il gruppo di coloro che erano disposti a parlare con l’Occidente, fossero squalificati agli occhi di una larga parte dell’opinione pubblica. Avevano predicato il dialogo e sono stati accolti come sappiamo dalla maggiore potenza occidentale. È per questo evidente che il partito dei “duri”, di coloro che prendono in considerazione, anche per conservare meglio il potere, la prospettiva di un conflitto, abbiano oggi le carte in mano”.
Il 2020 sarà ricordato come l’anno delle presidenziali negli Stati Uniti. Qual è il suo giudizio sull’inquilino della Casa Bianca?
“Su Trump il giudizio è molto negativo. Ho sempre evitato di prendere una posizione polemica così netta nei suoi confronti. L’ho fatto, l’ho scritto, ma ho sempre moderato quello che avrei potuto, e forse dovuto dire, perché ho sempre ritenuto che l’elezione di Trump alla Casa Bianca fosse una grande occasione da cogliere per l’Europa. Non ero il migliore dei critici proprio perché consideravo la sua presenza una specie di manna scesa dal cielo”.
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen punta tutto sulla questione delle crisi climatiche e dell’ambiente. Sarà un volano per la nostra Europa, contribuirà a raccogliere maggior consenso tra i più giovani? C’è chi sostiene che si tratti di una mission senza una solidità economica? Che idea si è fatto?
“Credo che quanto stia avvenendo sia dovuto in gran parte al ricorrente bisogno delle nuove generazioni di aver qualche cosa in cui credere. Poi passerà il tempo, invecchieranno e ci crederanno meno. La Giovanna d’Arco svedese (Greta Thunberg ndr) ha recitato la sua parte, ha fatto proseliti ovunque. Direi questo… anzitutto la rinuncia agli idrocarburi è una rivoluzione inevitabilmente lenta. Sappiamo quanto sia difficile chiudere una fabbrica come l’Ilva, immaginiamoci chiuderne centinaia che vivono di idrocarburi. I primi ad accorgersene saranno i sindacati, che cominceranno a protestare perché un processo di questo tipo può avere delle ricadute sul numero dei lavoratori e degli impiegati. Quindi, siamo alle solite, cioè di fronte a una classe politica che non può voltare le spalle agli umori della pubblica opinione, soprattutto giovanile, in ottica elettorale. La grande operazione si farà, ma solo quando, dopo vari tentennamenti, avremo trovato un passaggio di uscita dagli idrocarburi con cui sia possibile fare profitto. Se riusciremo a rendere l’operazione clima remunerativa, prima o poi nasceranno aziende che avranno interesse a lavorare in altri modi, altri mezzi. Lo faremo insomma, quando sarà utile farlo”.
Ambasciatore, dopo le prime mosse del governo Johnson, è oggi un po’ meno pessimista circa le conseguenze della Brexit rispetto a un anno fa?
“In questo momento, non credo sia possibile essere ottimisti per il Regno Unito. Boris Johnson è un camaleonte, perciò a un certo punto dirà cose diverse, uscendo dalla sua posizione di liberista radicale. Siccome è un camaleonte, dirà al suo elettorato altre cose, correggendo da più parti il suo messaggio. Insomma, cercherà di sopravvivere, perché tutto gli è contro in questo momento. La rivoluzione economico-sociale che voleva fare, la riproponeva sulle orme di Trump, contando sul sostegno degli Stati Uniti che avrebbero fatto con il Regno Unito un accordo molto liberista e vantaggioso per Londra. Adesso si sta accorgendo che le cose non stanno così, lo avrebbe dovuto capire prima, ma ha ora compreso l’inaffidabilità di Trump. Punterà a conservare il potere, visto che il consenso nei suoi confronti non è caduto. La Gran Bretagna attraversa un momento di grande delusione nei confronti della democrazia rappresentativa, con la Camera dei Comuni, gioiello della sua storia, che non sta funzionando e il Paese che attraversa una fase difficile. Ecco…Boris Johnson è l’uomo che galleggerà”.
In ultimo, nei giorni scorsi si è tenuta l’importante Conferenza di Monaco. Secondo il segretario di Stato americano Mike Pompeo, l’Occidente “sta vincendo”, secondo il presidente francese Macron “si sta indebolendo”. Chi ha ragione?
“Credo che il Presidente Macron si sia accorto di ciò che abbiamo notato anche noi. Siamo in una situazione in cui il grande progetto economico del libero mercato non si può certo dire fallito, ma si è rivelato pieno di rischi e pericoli. Chi credeva nel Washington consensus poteva immaginare che la finanza sarebbe stata più importante dell’industria? Che la finanza avrebbe finito per dominare i mercati? Se Bloomberg vince le elezioni americane, gli Stati Uniti passeranno da un presidente milionario a uno miliardario. Questo è il mondo dell’economia oggi: la finanza ha vinto e continuerà a fare qualche cosa buona e molte cose pessime. In secondo luogo, se questo è il problema dell’economia, la democrazia, l’altra grande promessa nella scala dei valori occidentali, è in crisi dappertutto. Naturalmente intendo quella rappresentativa, escludendo le forme di democrazia illiberale presenti. La democrazia rappresentativa – cioè quella che mandava in una o due camere le persone che avrebbero governato per un certo numero di anni e ceduto il passo ai loro successori pacificamente – non funziona. Non funziona in Gran Bretagna e nemmeno negli Stati Uniti. Capisco perfettamente che il collegio elettorale negli Usa abbia la sua ragione d’essere: in un Paese federale, gli Stati federati sono più importanti sotto il profilo politico di quanto sia il conto delle teste. Accade così nella Confederazione elvetica, dove certi mutamenti devono esseri fatti con la doppia maggioranza (teste e cantoni). Se la democrazia non funziona e l’economia ha favorito la crescita del potere finanziario, a dispetto di quello sudato e guadagnato nelle industrie, c’è qualcosa che non va…mi creda”.