Il dopo Brexit parte in salita
Eravamo tutti più o meno consapevoli che con il 31 gennaio si sarebbe conclusa la parte paradossalmente più semplice del complesso processo di divorzio del Regno Unito dall’Unione europea. E’ vero infatti che, a partire dalla data del fatidico referendum fino al sofferto accordo sul recesso, a Londra si erano sperimentate enormi difficoltà: due elezioni anticipate; infinite tensioni fra esecutivo e Parlamento; molteplici cambi e rimpasti nella composizione dello stesso esecutivo; crisi ricorrenti all’interno dei due partiti maggiori; e rischi per la tenuta dello stesso Regno Unito a fronte delle tentazioni secessioniste di Scozia e di una parte dall’Irlanda del Nord. Ma in fondo i problemi da risolvere con il Withdrawal Agreement erano sostanzialmente pochi e relativamente semplici.
In sostanza si trattava di definire: lo status dei cittadini europei residenti nel Regno Unito (e dei cittadini britannici nel resto di Europa); il conto di quanto Londra avrebbe dovuto pagare all’Ue sulla base degli impegni assunti nel quadro del bilancio comunitario (il cosiddetto Exit Bill); la questione (rivelatasi più complicata del previsto) di come regolare il transito delle merci al confine tra Repubblica di Irlanda e Irlanda del Nord; e infine un periodo transitorio (rapidamente concordato ma nel frattempo diventato molto breve) che sarebbe stato necessario, dopo l’uscita formale Regno Unito dall’Ue, per raggiungere un accordo sul futuro assetto delle relazioni bilaterali fra Unione europea e Londra.
Ed eravamo tutti più o meno consapevoli che la parte più difficile si sarebbe aperta in effetti all’indomani del 31 gennaio, quando sarebbe di fatto iniziato il pre-negoziato sulla definizione delle future relazioni fra il Regno Unito (ormai a tutti gli effetti un Paese terzo) e l’Unione europea. Dopo i discorsi di ieri del primo ministro britannico Boris Johnson e del negoziatore capo della Ue Michel Barnier, si conferma l’impressione che la fase del dopo Brexit sia perlomeno partita in salita.
Le posizioni di partenza erano note. La Ue aveva manifestato la più ampia disponibilità ad un accordo commerciale di portata particolarmente ambiziosa. Anche ieri Barnier ha confermato che la Ue è pronta a negoziare un accordo ad hoc, modellato sulla base dell’accordo negoziato a suo tempo con il Canada, con l’obiettivo di minimizzare la conseguenze negative della Brexit, e consentire un ampio accesso di beni (industriali e agricoli) e servizi del Regno Unito al mercato interno europeo, a condizioni per quanto possibile non dissimili da quelle oggi in vigore. In contropartita, la Ue chiede al Regno Unito di adeguarsi agli standard europei in materia ambientale, sociale, di protezione dei consumatori, di concorrenza e di aiuti di Stato, di fiscalità. E chiede inoltre un accordo sui diritti di pesca nelle acque britanniche. Il senso di questa posizione negoziale è chiaro e condivisibile: la Ue è pronta a concedere a Londra il più ampio accesso al mercato europeo, a condizione che Londra rinunci a muoversi come un “free rider” e a praticare di forme di concorrenza sleale nei confronti degli ex partner europei.
Ebbene ieri Johnson ha aperto le ostilità dichiarando in sintesi che: il Regno Unito non è interessato ad un accordo di libero scambio ambizioso con la Ue, se questo dovesse comportare la necessità di adeguarsi a regole e standard europei; che il Regno Unito vuole recuperare una sua piena sovranità in materia di regole e standard; che Londra è pronta ad un accordo di portata modesta e settoriale se la UE dovesse insistere sulla convergenza regolamentare; ed infine che Londra vuole giocare la sua partita a tutto campo, presentandosi sulla scena internazionale come un campione del libero scambio e stabilendo relazioni nuove commerciali con altri paesi.
Il messaggio non poteva essere più esplicito. E ha fatto bene Barnier a ricordare, a nome dell’Ue, che accesso al mercato e una intesa su un level playing field in materia di regole devono andare di pari passo. Si apre quindi ora un negoziato potenzialmente più difficile di quanto qualche ottimista aveva potuto sperare.
Intuitivamente, un accesso di merci e servizi britannici nel continente, e di merci e servizi europei nel Regno Unito, unicamente regolato dalle regole del Wto e sottoposto a controlli, dazi, barriere non tariffarie e limitazioni quantitative va contro gli interessi delle due parti. Una situazione caratterizzata da paralisi o riduzione del commercio di beni e servizi e “far west” regolamentare potrebbe avere conseguenze seriamente negative su economie allo stato attuale fortemente collegate e integrate. Dovrebbe invece essere nell’interesse delle due parti arrivare a definire un regime quanto più liberalizzato di scambi di merci e servizi, insieme a meccanismi necessari per raggiungere quella convergenza regolamentare che costituisce la base per un regime di libero commercio, in condizioni di concorrenza leale. Basta pensare a cosa costerebbero a Londra (e non solo) limitazioni all’accesso dei servizi finanziari della City al mercato europeo.
E’ possibile e verosimile che le dichiarazioni di ieri di Johnson fossero prevalentemente dirette ad un pubblico interno (anche se le prime reazioni della Borsa di Londra e sulle sterlina confermano le preoccupazioni del business britannico per la linea del primo Ministro). E’ ugualmente possibile che si sia trattato di un pre-posizionamento tattico in vista di negoziato tutt’altro che facile. Ma se prevarrà il buon senso, e se la Ue manterrà quella compattezza e unità di intenti che hanno finora caratterizzato la posizione dei 27 sulla Brexit, dovrebbe ancora essere possibile realizzare una intesa. Al fondo lo scenario di una accordo ampio e comprensivo, che includa oltre alle relazioni commerciali anche intese su sicurezza e politica estera, è pur sempre lo scenario più conveniente sia per Londra che per Bruxelles. A volte però il buon senso si perde nel gioco dei condizionamenti di politica interna. Necessario allora per l’Ue prepararsi a negoziare con fermezza e chiara percezione degli interessi in gioco.