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Tra economia e vaccini

I primi 100 giorni di Biden e Harris: parla Francesco Costa

26 Apr 2021 - Elena Paparelli - Elena Paparelli

Nel libro “Una storia americana. Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire” (Mondadori, 2021) di Francesco Costa, vicedirettore del Post ed esperto di politica statunitense, si ripercorrono le biografie del 46° presidente degli Stati Uniti d’America e della sua vice, in un viaggio lucido che intreccia le loro vicende personali con la storia politica e sociale americana. AffarInternazionali ne ha parlato con l’autore, interpellandolo anche sulla direzione che sta prendendo l’amministrazione Biden alla vigilia dei primi 100 giorni del mandato.

Biden e Harris sono “il nuovo volto della Casa Bianca”. Due carriere lunghe dove i destini personali accompagnano parte della storia politica americana. Partiamo della carriera della vice.
Kamala Harris è stata procuratrice di San Francisco, poi della California e poi senatrice. Quando è diventata procuratrice in California erano anni di fortissimo aumento della criminalità e la società americana attribuiva principalmente agli afroamericani questa responsabilità. All’epoca gli afroamericani erano considerati parte del problema e non della soluzione e i procuratori di tutto il Paese erano bianchi per il 95%, e uomini per il 75%. Che una donna nera in quegli anni sia diventata procuratrice a San Francisco e poi in California, dunque non in posti irrilevanti, è stato un grande successo. Non c’era mai stata una donna procuratrice in California. Da lì è diventata senatrice, raccogliendo molti consensi e popolarità, arrivando al senato inesperta e nonostante questo facendosi notare per uno stile, una competenza, e una capacità anche di essere incisiva. Nel libro racconto di come Harris da ragazzina nera sia cresciuta durante gli anni della segregazione di fatto. Proprio gli anni in cui Biden era parlamentare.

A proposito di criminalità, nel libro descrivi bene il clima in cui Biden firmò la legge contro il crimine del 1994, nota come Violent Crime Control and Law Enforcement Act, o anche come Biden Crime Bill, in cui, a fianco di misure progressiste, c’erano cose come l’estensione della pena di morte a 60 nuove tipologie di reato o l’inasprimento di pene per i reati federali.
Biden fu il primo firmatario e il principale promotore di quella legge, che fu il frutto di una lunga mediazione ma soprattutto di 20-25 anni in cui negli Stati Uniti c’è stato un fortissimo aumento della criminalità. Probabilmente non riusciamo davvero a comprendere del tutto la quantità di omicidi, rapine e aggressioni di quel periodo nella società americana. Anche da parte degli stessi afroamericani c’era il desiderio di misure molto pesanti contro il crimine. Per la sensibilità dell’epoca, questa legge fu considerata un provvedimento positivo e, anzi, un esempio di come i democratici potessero legiferare su temi come questi senza usare la mano pesante, come facevano all’epoca i repubblicani. Il punto è che da allora – erano gli anni ’90 – ad adesso, la sensibilità degli americani sull’applicazione delle pene, e sul sistema giudiziario in generale, è molto cambiata. Che il pugno duro sia servito a poco – ma soprattutto che abbia colpito quasi esclusivamente gli afroamericani – è un fatto sotto gli occhi di tutti. Tanto è vero che è stato Trump, durante il suo mandato, a firmare una legge votata da democratici e repubblicani per alleviare moltissime delle pene approvate in quegli anni. Per Biden quella legge, che all’epoca era considerata da lui stesso una grande conquista e un fatto importante per il suo curriculum, oggi è stimata l’espressione di un approccio repressivo, punitivo alle questioni che riguardano la criminalità. Tanto è vero che durante la campagna elettorale lo stesso Biden ha promesso di cambiarla. 

La leadership democratica (Joe Biden, Kamala Harris, il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer e la speaker della Camera Nancy Pelosi) in occasione della resentazione dell’American Rescue Plan (EPA/JIM LO SCALZO / POOL)

Nel libro viene sottolineata la grande capacità di negoziazione di Biden. In quale occasione si è espressa in maniera più incisiva?
Ce ne sono state varie. La più importante è stata sicuramente la trattativa per approvare il Recovery Act, la legge con la quale l’amministrazione Obama ha cercato di stimolare l’economia dopo la pesantissima crisi dei mutui sub-prime dal 2008-2009. Dopo un lungo negoziato con i repubblicani di cui si incaricò lo stesso Biden, si arrivò all’approvazione della legge, anche con il voto di qualche repubblicano, a costo però di fare tutta una serie di concessioni e di compromessi, oltre che di ridurre di molto la cifra che l’amministrazione democratica intendeva stanziare. Ora che Biden è arrivato alla Casa Bianca da presidente, si trova davanti di nuovo una crisi economica colossale, e di nuovo la prima cosa che fa è una legge che stanzia molti soldi per far rialzare l’economia, e ancora una volta si mette a discutere con i repubblicani. Stavolta, però, decide che i negoziati non possono durare troppo e le sue misure non possono essere eccessivamente annacquate in nome dello spirito bipartisan. La legge che è stata approvata qualche settimana fa, l’American Rescue Plan, è molto più ampia del Recovery Act del 2009, ed è stata votata solo con i voti del Partito Democratico. Biden di fatto ha dimostrato di aver imparato quella lezione. E cioè che si può collaborare con il Congresso ed è il caso di farlo se quest’ultimo è interessato a collaborare e se il frutto di quel negoziato è soddisfacente. Se invece è insoddisfacente, tanto vale andare per la propria strada.

Con l’American Rescue Plan si punta allo stanziamento di 1.900 miliardi di dollari di nuova spesa pubblica per far ripartire l’economia.
Si tratta di una legge enorme sul piano della spesa anche soltanto per le dimensioni: era dagli anni Sessanta che non si vedeva un programma di spesa pubblica così ampio. E per quanto l’amministrazione Biden l’abbia presentato come una legge legata alla pandemia e quindi alla necessità di dare sostegno e soccorso a chi ne ha bisogno, in realtà solo una minima parte di quel pacchetto di soldi va direttamente a questioni che riguardano l’epidemia. È invece una grande legge contro la povertà, che prevede un grosso trasferimento di risorse agli americani, specie a quelli che hanno di meno. Gli studi e le analisi che sono state diffuse durante la fase di approvazione della legge dicono che potenzialmente questa legge può dimezzare la povertà infantile e ridurre di un terzo il tasso di povertà negli Stati Uniti.

La campagna vaccinale negli Stati Uniti procede a ritmo spedito. Merito di Biden?
Stati Uniti, come Israele e Regno Unito, hanno perseguito una strategia diversa dall’Europa. Gli Stati Uniti si sono presi dei rischi e questi rischi hanno pagato. Il merito, secondo me, va condiviso fra Trump e Biden: gli Stati Uniti, infatti, non hanno avuto problemi di approvvigionamento di dosi se non in una prima fase perché l’amministrazione Trump ha ricoperto di soldi le case farmaceutiche, ha finanziato la produzione dei vaccini, ha pagato tantissimo le dosi ed ha ottenuto in cambio che i vaccini venissero prodotti negli Stati Uniti e non altrove. E anche che le case farmaceutiche rispettassero gli impegni, visto che le dosi sono state pagate a volte anche il triplo o il quadruplo dell’Europa. Quanto alla somministrazione dei vaccini vera e propria, però, la campagna dell’amministrazione Trump è stata molto deficitaria: non c’era molta organizzazione, i punti vaccinali erano pochi e quasi tutto era stato delegato agli Stati. L’amministrazione Biden può prendersi dunque il merito delle vaccinazioni perché, guardando i dati negli ultimi due mesi, si è passati da un milione a quattro milioni di somministrazioni al giorno. Questo perché c’è stato un forte investimento e un grande lavoro con i singoli Stati, a cui si sono forniti parecchi aiuti, risorse e soldi perché aprissero il maggior numero di centri per fare le vaccinazioni.

Una storia americana - Francesco Costa | Libri MondadoriI primi passi dell’amministrazione Biden in politica estera segnano una discontinuità con Trump?
La premessa dei discorsi sulla politica estera è che i presidenti fanno gli interessi degli Stati Uniti. Quello in cui differiscono è come cercano di farli. Da questo punto di vista mi sembra che Biden stia mostrando una certa discontinuità rispetto a Trump. Se pensiamo all’Asia e alla Cina, il fatto che Biden abbia incontrato già molti capi di Stato nella Regione, e stia cercando di avere un approccio multilaterale per contenere l’avanzata della Cina, è un fatto nuovo. Ricordiamo che Trump ha passato quattro anni a maltrattare il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia, mentre invece Biden sembra voler stringere delle alleanze più solide con questi Paesi. Per quanto riguarda l’Iran, mentre Trump ha stracciato l’accordo sul nucleare, Biden ha mostrato di voler togliere le sanzioni per provare a rimettere in piedi quell’accordo, insieme all’Europa che era stata fondamentale nel sottoscriverlo. Quanto al rapporto con la Russia, mentre Trump ha sempre mostrato un atteggiamento molto amichevole con Putin senza mettersi troppo in mezzo alle questioni europee rispetto al famoso gasdotto Nord Stream 2, l’amministrazione Biden pare sia molto determinata a fare qualsiasi cosa per impedire la realizzazione del gasdotto stesso e per colpire e isolare la Russia anche sul piano della comunicazione pubblica. L’altro tratto di discontinuità è che gli Stati Uniti hanno ricominciato a parlare di diritti umani. Infine, molto presto ci sarà probabilmente anche l’eliminazione rapida dei dazi sulle esportazioni dell’Unione europea, visto che per Biden le questioni fra alleati si risolvono senza colpirsi. Un giudizio complessivo sulla politica estera è ancora prematuro, ma i cambiamenti si stanno cominciando a vedere. In certi casi si tratta per il momento di cambiamenti di tono, che però in politica estera non sono mutamenti da poco.

Foto di copertina EPA/Stefani Reynolds / POOL