Afghanistan: la responsabilità degli europei e l’imperativo accoglienza
Il fiume di commenti sulla débacle degli occidentali in Afghanistan si può condensare in alcune (desolate) constatazioni che devono guidare una riflessione realistica sul futuro della politica estera degli Stati Uniti e dell’Unione europea.
Primo. Il ritiro americano è stato gestito in modo disastroso, su questo tutti concordano. Ma a torto molti criticano la decisione di Joe Biden di metter fine ad una impresa fallimentare. Decisione presa da Donald Trump (e consacrata negli accordi conclusi a Doha con i Taliban nel 2020), dopo che Barack Obama non era riuscito a districarsi da quel ginepraio. La responsabilità politica dell’ingenuo tentativo di attuare un regime change e il nation building una volta compiuta la legittima spedizione punitiva contro Al Qaida e i suoi protettori è di George W. Bush e dei suoi cattivi consiglieri. Imperdonabile aver ignorato la lezione del Vietnam e quella dell’intervento sovietico nello stesso Afghanistan. Prorogare di altri 6 o 12 mesi la guerra a bassa intensità, come molti europei avrebbero auspicato, non sarebbe servito a nulla; in ciò Biden ha ragione.
Secondo. Le conseguenze geopolitiche sono evidenti: crollo del mito della leadership americana; conferma del ruolo meramente ancillare degli europei. Entrati in Afghanistan a rimorchio degli americani, non per tutelare interessi propri ma per dimostrare la loro fedeltà, non possono che uscirne a rimorchio, senza esser stati previamente consultati; scivolamento del Paese nell’orbita della Cina.
Terzo: il crollo imminente del regime filo-occidentale era prevedibile, anche se non nel giro di pochi giorni (la sua rapidità non è stato il peggiore dei mali, avendo impedito un bagno di sangue). Non averlo previsto è un inspiegabile errore dell’intelligence e dei comandi militari che dovevano essere al corrente della scarsa combattività dei soldati locali mal pagati e del discredito dei loro superiori corrotti. E se invece quella diagnosi era arrivata a Washington, il presidente, il segretario alla Difesa e lo Stato Maggiore dovranno rispondere della mancata predisposizione di un piano di ritiro ordinato. L’incauta affermazione di un mese e mezzo fa – “Kabul non è Saigon” – continuerà a turbare i sonni di Biden e di Antony Blinken. Kabul è a tutti gli effetti una nuova Saigon.
Evitare il ritorno dell’internazionale jihadista
Quarto. Dopo l’Afghanistan, ma anche l’Iraq e la Libia, l’Occidente avrà finalmente imparato la lezione che la democrazia non si esporta con la guerra, e che di fronte ad una guerriglia praticata da nazionalisti disposti a tutto – peggio se animati da zelo religioso -, un esercito straniero dotato di armi sofisticate e costosissime ma preoccupato di minimizzare le perdite, soprattutto le proprie, è alla lunga destinato al fallimento. È stato evocato il rischio che questo ragionamento venga applicato dalla Francia al Sahel; ma qui la situazione è diversa: siamo di fronte a movimenti insurrezionali che, come fece l’Isis nel 2014, mirano a creare roccaforti jihadiste con una dimensione territoriale, per poi destabilizzare altri Paesi e addestrare terroristi da inviare in Europa. Costituiscono dunque una minaccia per la nostra sicurezza ed esigono una pervicace azione di contrasto, quella che sta conducendo la Francia con un aiuto (ancora troppo modesto) di altri Paesi Ue.
Quinto. I Talebani hanno vinto, anzi ri-vinto a distanza di 25 anni, sostanzialmente perché non sono invasori: la popolazione rurale condivide il loro fiero nazionalismo e la loro versione medievale dell’Islam. Certo, le intimidazioni e rappresaglie, come in ogni guerriglia, hanno fatto la loro parte. Perdente è quel segmento della popolazione urbana, minoritario, che ha creduto nella conquista definitiva della modernizzazione e della laicità, prima sotto l’ombrello sovietico, poi sotto quello americano. Perdenti tutte le donne, molte inconsapevolmente. Noi vorremmo proteggerli, proteggerle, ma non siamo in grado di farlo.
Sesto. Non avendo modo di esercitare pressioni sui Talebani, invochiamo l’aiuto (in sede di G20) di Cina e Russia, proprio le potenze che Nato e Ue definiscono “rivali sistemici”, cioè avversari. In comune abbiamo solo la preoccupazione che l’Afghanistan non torni ad essere un porto sicuro per l’internazionale jihadista. Ma la Cina si limiterà a negoziare col nuovo regime di Kabul la garanzia che nessun appoggio verrà dato agli uiguri del Sinkiang. Analogamente, la Russia userà quel tanto di influenza ritrovata per impedire che l’islamismo militante debordi nelle vicine repubbliche ex-sovietiche, in particolare in Uzbekistan e Tagikistan. Sia Mosca che Pechino si asterranno da ingerenze in favore dell’emancipazione femminile o dei dissidenti ed ex-collaboratori.
Unica soluzione, l’accoglienza
Dobbiamo concluderne che, al di là degli appelli al rispetto dei diritti umani, l’unica cosa che l’Europa può fare per alleviare la tragedia degli afghani istruiti e desiderosi di libertà è l’accoglienza di coloro che riusciranno a fuggire. Questa istanza morale si scontra tuttavia con la riluttanza dell’opinione pubblica e il previsto costo in termini elettorali, cui alcuni partiti sono sensibili. I nostri governi, e anche la Commissione di Bruxelles, si illudono che una via di uscita possa consistere nel delegare il compito ai Paesi confinanti con l’Afghanistan e alla Turchia, in cambio di aiuti finanziari. Ma Ankara ha subito chiarito che non è disposta, Iran e Pakistan già ospitano da tempo alcuni milioni di rifugiati da quel Paese, Uzbekistan e Tagikistan hanno dovuto reprimere movimenti jihadisti in passato e non intendono rischiare di importare terroristi e predicatori infiltrati nel flusso dei profughi.
Questa stessa preoccupazione contribuisce ad inasprire la riluttanza di alcuni leader europei, fra i quali spicca per franchezza l’austriaco Sebastian Kurz, ad aprire le porte ai profughi afghani. L’Austria, fanno notare fonti governative, ha già un primato in Europa (in proporzione alla propria popolazione) avendo sinora accolto circa 40mila rifugiati provenienti dal Paese centro-asiatico. Ed è innegabile che giovani afghani siano spesso in primo piano nella cronaca nera viennese. Di fronte alla tragedia di Kabul simili atteggiamenti isolazionisti non sono però ammissibili. Resta solo da sperare che il binomio Merkel-Macron, prima di uscire di scena, imprima una linea meno gretta all’Unione.
Il minimo che si possa decentemente fare è continuare a intensificare l’evacuazione degli ex-collaboratori; nonostante le minacce di nuovi attentati. Ma molto più ampio è il bacino degli aventi diritto all’asilo in quanto oggetto di probabili persecuzioni. In mancanza di appositi corridoi umanitari, molti di loro si presenteranno nei prossimi mesi e anni alle nostre frontiere, dopo penose odissee, e il diritto internazionale ci vieterà di respingerli. Alle rotte balcanica e mediterranea si aggiungerà quella russa-bielorussa. Nuovi muri freneranno questo flusso ma non lo fermeranno. Accogliere questi profughi sarà non solo un dovere umanitario ma uno dei costi non calcolati della nostra partecipazione all’avventura dell’America nella “tomba degli imperi”.