Il voto in Russia mette in difficoltà lo zar Putin
Le elezioni alla Duma del weekend 17-19 settembre non possono venire interpretate come una consultazione elettorale normale, che ha lo scopo di ri-legittimare un governo oppure certificare il cambiamento di equilibri politici: la seconda funzione viene considerata dal sistema politico costruito da Vladimir Putin come inutile e pericolosa per la “stabilità”, mentre la prima non è più praticabile.
Il livello di sfacciataggine delle manipolazioni prima nella fase pre-elettorale, con l’esclusione dalla competizione di centinaia di candidati dell’opposizione liberale e non (e la devastazione di quel che restava di uno spazio mediatico indipendente) e poi nel corso delle operazioni elettorali e dello scrutinio ha segnato la conclusione della trasformazione del regime del Cremlino, accelerata negli ultimi mesi dallo scontro con Alexey Navalny.
L’ “autoritarismo informativo” teorizzato dall’economista Sergey Guriev – ex consigliere di Putin e mentore dell’oppositore Alexei Navalny – del primo ventennio putiniano implicava un consenso di maggioranza ottenuto con il dominio dei media e la distribuzione di benessere ricavato dal petrolio, con elezioni semi-libere, la repressione selettiva dei leader di una minoranza scontenta e una cooptazione limitata di gruppi dal Dna politico diverso quando non opposto.
Venuta meno la maggioranza putiniana – sgretolata dalla crisi economica, dalla corruzione, e soprattutto dall’entrata in scena di una nuova generazione indifferente allo shock post-traumatico dei reduci del sistema sovietico – la reazione del Cremlino è stata quella di mettere da parte perfino le parvenze democrazia.
Affluenza “asciugata”
Il messaggio del voto 2021 è rivolto alla popolazione, come dimostra la massiccia intimidazione con migliaia di arresti, licenziamenti ed espulsioni, e dallo spot di Russia Unita dove i capilista Sergey Lavrov e Sergey Shoigu, i ministri degli Esteri e della Difesa, trattano da imbecille un elettore che commenta la politica davanti alla tv, fino a convincerlo a dare il loro voto al governo senza porsi domande scomode.
O addirittura senza andare al seggio: il governo ha “asciugato l’affluenza”, come dicono nel loro gergo gli spin-doctor russi, scoraggiando gli elettori critici dal presentarsi alle urne, scommettendo invece che sulla costruzione di una maggioranza sulla manipolazione di una minoranza: le stime del voto “reale” parlano di un consenso a Russia unita del circa 30%, di un’affluenza sotto il 50%.
Ma soprattutto è rivolto ai clan di potere, alle élite russe: indipendentemente dal consenso reale, e dallo scontento reale, il controllo rimarrà in mano al gruppo di potere attuale, e qualunque cambiamento in vista della scadenza del 2024, quanto Putin dovrà decidere se ripresentarsi, potrà provenire soltanto dal suo interno.
Gli altri quattro partiti della Duma hanno negoziato i loro candidati nelle circoscrizioni uninominali direttamente con l’amministrazione presidenziale, e l’evoluzione sognata da Navalny – elezioni libere sostenute da proteste di piazza – oggi appare impossibile. Ma le elezioni sono state un test di resistenza, condotto sia dal Cremlino che da Navalny e i suoi sostenitori.
Un regime terrorizzato dal dissenso
L’interrogativo non era infatti il risultato – sulla cui veridicità nessuno si era nemmeno interrogato – bensì la fatica che il regime avrebbe impiegato per ottenere il risultato desiderato, rispetto alla resistenza opposta dall’opposizione e da altri gruppi nell’establishment. La risposta è un bicchiere mezzo pieno: il sistema di Putin è riuscito a elevare la repressione a un livello tale da bloccare la protesta, ma nello stesso tempo si è mostrato messo gravemente in difficoltà da quello che in fondo è un gruppo abbastanza ridotto di attivisti, i cui leader sono in carcere o in esilio.
Le minacce ad Apple e Google per oscurare il “voto intelligente” proposto da Navalny hanno mostrato un regime terrorizzato anche dalla minima manifestazione di dissenso, e disposto a misure apparentemente sproporzionate per tacitarlo. La maggioranza costituzionale conservata alla Duma è costata uno sforzo immane, che non lascia praticamente risorse per qualcosa di più propositivo di scavare trincee intorno a una fortezza assediata.
Se il valore supremo del putinismo è la stabilità, Navalny è un maestro della destabilizzazione, che perfino dal carcere è riuscito a scuotere il sistema, e non soltanto al Cremlino. Scegliendo come candidati del suo “voto intelligente” – che consiste sostanzialmente dall’incanalare tutto il voto anti-putiniano sul candidato con maggiori chances di vincere contro i “russouniti” – numerosi comunisti, non solo ha trasformato il Pc nel primo partito (senza contare i brogli, ovviamente) perfino nelle roccaforti liberali di Mosca e Pietroburgo, ma ha spaccato i comunisti lungo quel confine generazionale che aveva già diviso l’elettorato putiniano.
Paradossalmente, ora sono le leve più dinamiche di un partito il cui 77enne leader Gennady Zyuganov inneggia a Stalin a tifare per le elezioni libere in Russia: potrebbero vincerle, e governare, invece di negoziare i propri privilegi con il Cremlino, in un fronte trasversale dell’opposizione al regime che non finora non si era mai realizzato.
Foto di copertina EPA/SERGEI SAVOSTYANOV