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Verso la chiusura del Pepp

Nuovi picchi, vecchi timori: se torna a salire lo spread tra Btp e Bund

8 Nov 2021 - Tommaso Camilot - Tommaso Camilot

Lo spread tra Btp e Bund torna a salire. La causa? Le dichiarazioni della presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde di giovedì 28 ottobre, al termine della riunione del Consiglio direttivo dell’istituto di Francoforte: la Bce non prorogherà il Pandemic Emergency Purchase Program (Pepp) dopo la scadenza prevista per marzo 2022. Il programma – affiancato al Quantitative easing nel marzo dello scorso anno – è stato progettato per acquistare titoli pubblici e privati per un valore complessivo di 750 miliardi di euro, con l’obiettivo di tenere alti i prezzi dei beni finanziari ed ammortizzare la caduta economica causata dal Covid-19.

Tuttavia, l’annuncio della fine del Pepp ha causato un rialzo dei tassi di interesse nelle economie dell’Europa meridionale – tra cui quella italiana, che ha maggiormente risentito della volatilità dei mercati finanziari. Il mercato dei bond italiano ha visto il rendimento dei titoli di Stato crescere di 0,2 punti percentuali in pochi giorni, mentre lo spread è volato a 130 punti base: è il valore più alto da luglio 2020. Tuttavia, le prospettive non sono del tutto infauste, sebbene ravvivino ricordi infelici.

Nell’ultimo decennio lo spread è stato l’indesiderato protagonista della storia economica italiana e continua ancora oggi a spaventare gli osservatori. Il differenziale tra Btp e Bund preoccupa perché è sintomo del divario tra i rendimenti dei titoli di stato tedeschi (considerati il riferimento per affidabilità finanziaria in Europa) e quelli italiani, ed il suo rialzo è dato della crescente sfiducia degli investitori nella capacità dello stato di ripagare l’interesse sul debito. Nello scenario di questi giorni il prezzo dei Btp scende – al calare della domanda – ed il tasso di interesse sale. In altri termini, il maggior rendimento dei titoli italiani è indice della loro rischiosità.

Storia di un termine antipatico
Lo spread entrò a far parte del linguaggio comune degli italiani fra il 2011 ed il 2012, quando le conseguenze della crisi finanziaria colpirono Piazza Affari: l’indicatore si alzò fino a toccare i 550 punti nel novembre del 2011 ed il rendimento dei buoni del tesoro schizzò oltre il 7%. Con l’Italia anche Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia in particolare videro i propri tassi di interesse salire a causa di un alto rischio di default percepito dai mercati. Da allora in avanti si susseguirono le dimissioni dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi, il governo Monti – che tentò la riforma Fornero e che ebbe risultati altalenanti nel contenimento dello spread – il “whatever it takes” del capo della Bce Draghi del luglio 2012 ed il quantitative easing della Bce, la quale agì come prestatore di ultima istanza acquistando titoli dai governi più finanziariamente instabili per proteggerli dagli attacchi speculativi e dal fallimento; da quel momento, l’opinione pubblica italiana non sentì parlare regolarmente di spread fino all’insediamento del governo Conte 1.

L’ostilità dei gialloverdi verso i parametri dell’Unione europea, il “contratto del cambiamento” e le esplicite tendenze antieuropeiste dell’esecutivo allarmarono i mercati finanziari, facendo decollare il differenziale di rendimento: toccò un picco di 326 punti base nel novembre 2018, rimanendo in media sui 259 punti base sino all’insediamento del governo Conte 2, che riportò relativa stabilità. La pandemia di Covid-19 e l’approccio incerto della Bce fecero risalire i tassi di interesse fino all’annuncio del Pepp, che frenò l’ascesa dello spread tramite un massiccio acquisto di debito pubblico. Infine, l’“effetto Draghi” del febbraio scorso generò serenità negli investitori, ed i mercati finanziari risposero positivamente al nuovo esecutivo formato dall’ex presidente della Bce. Lo spread è rimasto invariato da allora, mantenendosi su una media di circa 100 punti base, fino appunto alle parole di Lagarde.

Cos’è cambiato
La nuova spirale ascendente è cominciata in seguito alle dichiarazioni di Lagarde in merito alla fine del Pepp. La presidente della Bce ha inoltre affermato che non ci sono ancora valide ipotesi per evitare una riduzione negli acquisti dopo la scadenza del programma pandemico: pur restando accomodante, la Bce potrebbe allentare la rete di protezione costruita durante il Covid-19. Sebbene i mercati si aspettino l’introduzione di un qualche meccanismo di compensazione dopo la rimozione del Pepp, le dichiarazioni di Lagarde non hanno trasmesso particolari rassicurazioni agli investitori. Inoltre, l’incalzante inflazione e la decisione di più banche centrali – come Fed e Bank of Canada – di rallentare il ritmo di acquisto di asset sul mercato pesa sui titoli dei paesi con una condizione finanziaria molto deficitaria. L’Italia è uno di questi: per anni beneficiario dell’ampio intervento della Bce e con un consistente debito pubblico accumulato negli anni, il nostro paese soffre particolarmente le ripercussioni sul mercato dei bond.

Arrivano però anche buone notizie: con la crescita che sembra superare le aspettative e la conseguente diminuzione della necessità di emettere titoli di stato, la capacità del paese di attrarre acquisti sui Btp sta crescendo. Ulteriore conforto arriva dai movimenti dei mercati: lo spread è calato, la scorsa settimana, da 130 a 125 punti base. Insomma, le prospettive di crescita italiane e la situazione politica stabile sembrano suggerire che l’allargamento delle ultime giornate non sia che una reazione eccessiva dei mercati. C’è però da chiedersi cosa succederà quando l’aiuto della Bce cesserà, o verrà contenuto; rimane di certo l’impellente necessità di rafforzare la fiducia degli investitori, consolidando così il valore del Btp per renderlo autonomo dalla stabilizzazione della politica monetaria di Francoforte.

Foto di copertina di EPA/Julien Warnand.